Se gli androidi sognano pecore elettriche, quando lo incontriamo Denis Villeneuve sogna la comodità del suo letto a Los Angeles. «Il mio cuore è con voi, ma il mio corpo è ancora in America» scherza al suo arrivo. È una mattina di metà giugno e il regista e sceneggiatore canadese autore di successi di pubblico e critica come Prisoners e Sicario, in pieno jet lag, ci ha raggiunti a Barcellona per parlare di Blade Runner 2049. «È strano trovarmi qui e non sapere ancora come sarà… esattamente. Sono un po’ come una donna che sta per partorire suo figlio: non parla con i medici che le stanno intorno, deve solo pensare a farlo nascere» si giustifica, spiegando di essere ancora impegnato al montaggio, tra musiche ed effetti speciali. «Sarà pronto per settembre». A ottobre Denis festeggerà due volte: il 3 compirà 50 anni e poi, due giorni dopo, porterà in sala il film più atteso (e controverso, visto che scomoda un immaginario cinefilo sacro) dell’anno.
Su quali temi si concentra la nuova storia?
«Il sequel è un punto di contatto con quell’universo, perciò ha gli stessi ingredienti dell’originale: la crisi esistenziale, il concetto di memoria, la definizione di ciò che ci rende umani. Eppure è una storia completamente diversa: se fosse stato una copia carbone, non avrei mai accettato di farlo».
Ridley Scott ha già visto il risultato finale?
«Sì. Mi ha chiesto di raggiungerlo nel suo ufficio e mi ha ringraziato. La cosa più bella che ha detto è che, per quanto riguarda il mio approccio al film, si è sentito rispettato».
Com’è stato il tuo primo incontro con Harrison Ford?
«Surreale. Sono cresciuto guardando Indiana Jones e Star Wars perciò, quando sono andato a casa sua e lui ha risposto al citofono, ho avuto un brivido. Abbiamo parlato dello script e Harrison, nonostante non si fosse ancora ripreso dall’incidente aereo sul set di Star Wars, era pieno di energia, voleva farmi capire quanto fosse entusiasta. Per essere assunto dovevo convincere innanzitutto lui, era fondamentale ai fini della mia approvazione come regista».
Eri teso?
«All’inizio sì, anche perché con gli attori non puoi fingere: sono animali istintivi e tu devi essere onesto, è l’unico modo per sopravvivere. Ma lui ha un grande senso dell’umorismo, è una persona calorosa e generosa, che ti mette a tuo agio. Si è fidato subito di me e ha dato molti input riguardo a Deckard. Il suo aiuto è stato fondamentale».
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