Quando Luc Besson entra nella stanza del Crosby Hotel di New York, con lo sguardo assonnato e la barba incolta, il primo impatto non è lusinghiero: davvero quest’uomo ha diretto un film da 200 milioni di dollari? L’aura magnetica, il carisma che si suppone dovrebbero accompagnare i maestri della sci-fi contemporanea come lui (pensate a Christopher Nolan o Steven Spielberg, tanto per citare alcuni illustri colleghi) sono del tutto assenti. Poi però il regista di Valerian e la città dei mille pianeti comincia a parlare, e tutto cambia radicalmente. In un secondo diventa chiarissimo che in Besson la passione e dedizione per l’arte si accompagnano a un distacco filosofico salutare, forse addirittura necessario?
Il quinto elemento, Star Wars, Avatar: quali influenze troveremo in Valerian?
«Questo sinceramente è un modo di pensare da giornalista. Ora abbiamo tutta una nuova generazione di spettatori che non conoscono un mio film di 20 anni fa o Star Wars. Aspetta, magari Star Wars lo conoscono… Mio figlio ha undici anni e non ha visto l’originale, solo l’ultimo. Io non la penso in questo modo, è come se volessi disegnare dei punti e i giornalisti vogliono invece tracciare linee a tutti i costi. Io cerco di rinnovarmi ogni volta, onestamente non vedo alcun punto in comune tra Valerian e Il quinto elemento. Anche se so che probabilmente ci sono un paio di riferimenti, proprio non riesco a vederli. È come sposare prima una donna e poi un’altra, e i tuoi amici ti fanno notare quanto le due si somiglino… Forse l’unica cosa in comune è che continuo a non prendere me stesso troppo sul serio, non mi piacciono i supereroi con il mantello che sentono di dover salvare il mondo e fare a tutti i costi la cosa giusta. Mi piace la fantascienza quando è colore e divertimento, non quando è troppo dark. Se vuoi il dolore basta vedere il notiziario ogni sera…».
Puoi descrivere il processo creativo che ti ha portato a concepire l’universo visivo del film?
«Cinque, sei anni fa abbiamo iniziato a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, dicendo che stavamo progettando un grosso film di fantascienza senza dire di cosa si trattasse o che ero io a farlo. Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, ne abbiamo scelte dodici. Ho lavorato con cinque di loro per un anno, e dopo averli spremuti per bene sono passato agli altri sette. Non hanno avuto altro riferimento che me, una volta alla settimana, via Skype. Uno viveva in Cina, due negli Stati Uniti, e due in Europa. Ho lavorato in questo modo per proteggerli, volevo avessero la libertà totale di strabordare. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».
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