Il figlio di Saul, non il solito film su Auschwitz. La recensione

Eravamo un po’ anestetizzati ai film sui campi di concentramento, ma l'opera prima dell'ungherese László Nemes (candidata agli Oscar) è riuscita a farci sentire il dolore, a farci toccare con mano quell’inferno a cielo aperto. E non con una pellicola patetica, lacrimevole, bensì con una storia ad alta tensione

È sfuocata la primissima immagine che appare in Il figlio di Saul. Perché solo così – sfuocata, non visibile – può essere fotografata la tragedia di Auschwitz: l’orrore è troppo insostenibile per essere messo a fuoco, racchiuso in contorni definiti. Un punto di vista che per Saul è una questione di sopravvivenza: lui, membro di quel gruppo di “prigionieri scelti” dalle SS noto come Sonderkommando, è costretto, ogni giorno, ad accompagnare alle camere a gas migliaia di ebrei. Li aspetta ai binari, li scorta alle baracche, li fa spogliare mentre un comandante nazista rassicura «che dopo la doccia ci sarà zuppa calda per tutti». Dopo la doccia, come noto, nessun piatto caldo; solo una massa di cadaveri. Cadaveri che Saul e gli altri Sonderkommando devono rimuovere e bruciare per poi ripulire la stanza: un ciclo industriale di morte che l’uomo vive e rivive all’infinito e in cui, necessariamente, le vittime devono diventare delle ombre, esseri senza volto, un fluire anonimo di spettri. Lo sguardo umano non può reggere tanto, e infatti – metafora chiarissima – anche il tentativo di scattare clandestinamente una fotografia per denunciare le violenze di quel luogo fallisce, con il fumo che invade la scena. In quest’universo annebbiato per necessità, un giorno, però, Saul mette a fuoco un corpo. È il corpo di un bambino, è il corpo – crede, si ostina a credere – di suo figlio. Decide quindi di tentare l’impossibile e dargli una degna sepoltura.

Eravamo un po’ anestetizzati ai film sui campi di concentramento, ma Il figlio di Saul è riuscito a farci sentire il dolore, a farci toccare con mano quell’inferno a cielo aperto. E non con un film patetico, lacrimevole, ma con una storia di alta tensione, scritta con precisione chirurgica nel rispettare le tre unità aristoteliche di luogo-tempo-azione che cementano le vere tragedie. Ambientano unicamente nel campo di detenzione, nell’arco di pochi giorni, e basato sull’interrogativo drammatico “se il protagonista riuscirà o meno a seppellire il figlio”, il film non vuole documentare il dramma collettivo di Auschwitz quanto romanzare l’incubo a occhi chiusi-spalancati di un singolo uomo. E così i campi lunghi lasciano il posto a un formato ristretto, quasi quadrato (è un 1:1:37), che restituisce la claustrofobia della prigione fisica e mentale di Saul. Lo spettatore vede unicamente nel suo campo visivo e sente unicamente nel suo campo sonoro, venendo così totalmente immerso nel dramma di questo anti-eroe un po’ folle, un uomo che arriva a tradire i suoi compagni (vivi) per un gesto assurdo di onorare la morte. Un gesto egoista che però non possiamo condannare: anche in questo Saul è un personaggio intrinsecamente tragico, figura ingabbiata in un destino di morte, “né del tutto colpevole né del tutto innocente” come direbbe Racine. Un uomo inafferrabile come la nebbia che lo circonda, cadavere che cammina nel regno dei “vivi”.

Opera prima dell’ungherese Jeles András (classe 1977), Il figlio di Saul ha già vinto il Gran Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes, e ora è candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero: sarebbe un premio meritatissimo.

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