“West Side Story” (id., 2021) è il trentatreesimo lungometraggio del regista-produttore di Cincinnati, nell’Ohio, Steven Spielberg.
Nel(la) (Upper) West Side di Manhattan la rivalità incombe e i ruderi rimangono tali. La ripresa in una lunga carrellata, con voci di fondo e lo schioccare delle dita, avvolge lo schermo di colori anneriti, polveri e tristezza. Una ripresa precisa e netta, piena di storia e ricolma di cinema. Un’andatura a passo d’uomo, un’immagine scheletrica, dei ragazzi schierati e i fumi disperati di speranze future.
Un racconto che conosciamo, uno scontro che ritorna, un territorio conteso, una battaglia cruciale, una vita per delle morti. Tra Jets e Sharks è solo questione di onore, il resto conta nulla. Il senso della legge, del dialogo, del sedersi e del confronto sono lontani, impossibili da far convergere. E ogni silenzio è un lungo movimento di attesa cruciale. Di un lungo finale.
L’ultimo film del regista di Cincinnati è colorato, scolorato, aggrumato, spettacolare, movimentato, corrosivo, incisivo, entusiastico, ballerino, umido, spettrale, triste e, soprattutto, funereo.
Ma l’ultimo film rimane, intimo, personale, ristretto e un sogno. Strettamente privato, familiare e sulle sue. Appare umile e silenzioso nonostante il dispendio di mezzi e i movimenti continui di ballerini e luoghi. Infatti dopo i folgoranti ‘titoli di coda’ appare la dedica ‘To Dad’.
Il West Side Story dei conflitti dove il ‘sogno americano’ è parimenti il nuovo che avanzava e di cui loro (‘New Hollywood’) si sentono sfrattati e persi. Il territorio di Manhattan è ancora in battaglia.
Il cinema classico della Hollywood che fu appare ‘sfiancato’ nel ’canto del cigno’ ultimo di uno dei nuovi che ‘rimodernarono’ la settima arte. Ogni altro è sempre troppo, ogni film appare inutile: oramai sembra tutto di troppo. La ‘New’ oramai può farsi da parte.
L’inizio (rende reale) (è) il gioco di ‘Red Player One’ quando Wade Watts gira nella ‘baraccopoli’ e vuole essere Parzival in OASIS. L’alter ego ‘registico’ di una storia passata che vede un ‘futuro’ (2045) inquinato, sovrappopolato e privo di speranza.
‘West Side Story’ rimane una pellicola ‘intimidita’ e ‘avvolta’ dai clamori e dalle soffuse voci in un immaginario lungo nell’attraversare la carriera tutta e relativa filmografia. Ogni cosa vi si ritrova, dai particolari minimi, dagli angoli, dalle vie, dai colori, dalle piccole luci, dai mostri, dagli specchi, dall’acqua, dai riflessi e dagli artifizi anche in punta di piedi.
Il ‘ballo di una vita’, da una città in disarmo (‘fuga da Manhattan’ parafrasando J. Carpenter) fino ad una via notturna (‘oltre il tramonto’ ricordando il film di B. Wilder). Da un carrello a seguire ad un panoramica che si alza tra tubi e metalli. Il finale, come mai il cinema si accorge, fa pensare ad ‘Effetto notte” di F. Truffaut (1973) o meglio ‘La nuit américaine‘ (titolo originale, mai più appropriato in questo caso). Come non dire che il ‘vecchio’ Steven ha voluto omaggiare (con vera maestria) il regista francese (e il suo ‘Lacombe’ in ‘Incontri ravvicinati del terzo tipo’ -1977-) nell’ultima sequenza.
Da un rudere ad un corpo, da una luce accesa ad una luce spenta (il grido ‘spegni le luci’ primo dello scontro frontale e fisico tra gli Sharks e i Jets a mezzanotte, sembra il ‘programma’ di ‘puro cinema per una sala’), dalle mani ai coltelli, dal silenzio ad una pistola. Tony e Bernardo sono davanti a noi.
La musica e i balli, le parole e i canti, con le minime sfumature, entrano ‘in sipario’ comunque e dovunque cercando di smussare idee e pensieri, alzando il tiro per la rivalità accesa.
In fondo il tutto è un film ‘conclusivo’: il ‘Cotton Club’ (F.F. Coppola), il ‘The Canyons” (P. Schrader), il ‘Silence’ (M. Scorsese) di un regista che ha girato molto senza dire di troppo. Il sogno americano (ante litteram) si adagia, supinamente e, senza sforzo, una generazione di cineasti cede il passo senza ‘schioccare’ le dita. La ‘West Side’ è già rudere. Dopo 60 anni il cinema richiude con nuova generazione.
West Side Story. Un’America soffusa e triste. West Side Story. Un’America movimentata e taciturna. West Side Story. Un’America spettacolo e funerea.
Il racconto del regista, perché ha voluto girare il film (non è un vero remake ma la sua storia), perché ha voluto scegliere i personaggi in lingua (portoricani in primis), perché ha lasciato la recitazione in spagnolo, perché ha voluto l’incontro (assenso) di Arthur Laurent, perché ha voluto l’aiuto (e primo contatto) di Stephen Sondheim (morto il 26 novembre scorso) e perché, (soprattutto) il musical è il suo cinema. E basta scorrere: ‘1941’ (1979), ‘Indiana Jones e il tempio maledetto’ (1984), ‘Always’ (1988) e altro. Basti pensare che ‘Hook’ (1991) era stato pensato (e girato per un paio di settimane) come un musical in movimento.
Cast:
Ansel Elgort (Tony) e Rachel Zegler (Maria) in una complicità assor(ti)ta, dolce, fresca e piena nei loro sguardi. Ariana DeBose (Anita), interpretazione di grande spessore, mai sotto tono; David Alvarez (Bernardo), certamente buca lo schermo, riottoso sempre al punto giusto; Mike Faist (Riff), volubile, in viso e a proprio agio; Rita Moreno (Valentina), di classe accetta il ruolo e fa da passaggio di quello che per lei è stato.
Montaggio (di Michael Khan e Sarah Broshar) di grande efficacia, colma e integra la ripresa in ogni frangente; Musica, arrangiata da David Newman (già collaboratore del regista).
Regia di S. Spielberg:di puro cinema e di continuo dinamismo. Basti osservare il ballo in palestra, tra tutti, e il finale.
Voto: 9/10 (****½) -cinema epilogo-