Un film ch’include tutt’i livelli di discorso cui c’ha abituato il miglior Abel Ferrara, ma con delle svolte forse decisive nella sua cinematografia. Due direttori idealisti e sinistrorsi, quello del FMI (Dominique Strauss-Kahn alias DSK) e quello del set (director), accomunati da un ruolo demiurgico pregno di delirante volontà di potenza, padroni di corpo e animo dei loro subalterni che non si ribellano (è da “Occhi di serpente” del ’93 che Ferrara istiga all’ammutinamento senz’essere ascoltato). Dunque ancora salvezza, giustizia e redenzione però stavolta abbandonando speranze divine e congetture teologiche. Forse c’è spazio per un intervento umano e politico (ecco spiegato il contemporaneo biopic su Pasolini), e quest’opera ce ne fornisce un esempio estremo: il rapporto burattinaio-burattino è rovesciato in nome dell’atavica lex talionis, la pena viene comminata qui e ora, la colpa della reificazione e dell’asservimento, del declassare le soggettività a oggetti, viene espiata mondanamente e secondo regole da contrappasso dantesco. Quanto Devereaux/Depardieu nel completo sfascio psicosomatico infligge all’inizio, poi lo subisce per l’intero prosieguo del lungometraggio, mentre il regista autoimpone alla propria libertà creativa una rigida stretta semidocumentaristica, un grado per lui inusitato d’adesione al realismo. Realismo più nel plot, comunque dal suddetto senso multistratistificato, che nelle scelte espressive: montaggio nervoso e nevrotico, cinepresa quasi sempre a mano, fotografia notturna e cupa, un paio di sguardi in macchina, l’omaggio all’agognata innocenza dedicato a Truffaut e al suo “Domicile conjugal” (“Non drammatizziamo… è solo questione di corna!”, 1970); infatti il duello sulla figura dominante prosegue agl’arresti domiciliari con la moglie interpretata dalla Bisset. Non so se “Welcome To New York” possa essere capito e apprezzato pure da chi non è ferrariano di stretta osservanza.
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