Tutto il mio folle amore: la recensione di loland10

“Tutto Il mio folle amore” (2019) è il diciottesimo lungometraggio del regista-sceneggiatore napoletano di Gabriele Salvatores.
Tratto dal romanzo ‘Se ti abbraccio non aver paura’ di Fulvio Ervas in cui si racconta la storia vera di Andrea, autistico, e del padre Franco, che hanno viaggiato nei Balcani).
L’ultimo film come qualcosa da ricordare, da rifiorire e da rivedere.
Un road-movie come incontro tra lontani e sconosciuti. Un figlio di sedici anni che non ha visto mai il padre, un padre che ritorna a sorpresa, una mamma apprensiva e forte, un marito che segue l’onda. Ecco che le partenze diventano tante come le fughe, le distanze paiono dilatarsi ma ogni silenzio si apre perché il ragazzo non offre problemi ma quasi da soluzioni o vicine.
Una vita di sequenze, un set da costruire e degli spazi da riempire: pare quasi una prova a soggetto come inizio di una nuova vita. L’imprecisione e qualche aggiustamento paiono fastidiosi e utili; come le varianti ad ogni mattino paiono incongrue ma in vita, operanti su quello che non t’aspetti. Come un figlio mai visto e conosciuto.
Willy, un cantante di serie B è il girovago in piazze di paese, per racimolare qualche soldo, uno zampano’ in tono minore con in testa e nei modi le suonate di Modugno; è sempre fuori in cerca di aiuto tra un confine pericoloso e conoscenti da stare attenti.
Ha un figlio, Vincent, mai incontrato. Vuole vederlo, cerca di sorprendere la madre del ragazzo, Elena, ma riceve pochissime attenzioni. Il padre che lo ha cresciuto, Mario, ha un netto rifiuto. Vincent invece, stranamente scappa di casa e segue Willy e si infila dentro la sua auto di nascosto.
Inizia una storia a due, di conoscenza, di avvicinamento e di linguaggi nuovi per interagire. Scontri e incontri, silenzi e canzoni.
Le parole base sono ‘acqua e fuoco’ per capirsi, e lo schema di una vita sottosopra. Uno scorrere di piccoli passi fino a frasi spezzate con una tastiera e un monitor che si fa comodo.
Elena e Mario partono subito per riportare il figlio a casa…L’arrivo è casuale, i vuoti, le auto ferme, l’andare a piedi, le piazze misere, le feste tra pochi, i balli in balere, i luoghi senza conforto, le ragazze di piacere e il gioco di una corsa in moto. Willy e Vincent forse non si incontrano mai e sicuramente interagiscono come automi e forze solitarie. Le parole dette sono pericolose, quelle scritte ‘aleggiano’ in un desiderio di ‘commozione’ (che pare tarpata per una retorica sottrattiva e uno sguardo lontano).
Film riuscito bello ma imperfetto, interessante ma non scorrevole, in alcuni frangenti la sceneggiatura non è indirizzata in alto. Un racconto di basso profilo con intensità fluttuanti come le ‘dimostranze’ di nascita di Vincent (ripete la sua vita più volte nominando i veri genitori e chi lo ha protetto).
Sequenza finale a tre, stile duello senza nessun fuoco: quello dovrebbe ardere dentro; inaspettato (fino ad un certo punto) l’epilogo con ‘nessun’ vero padrone della scena.
Cast di ritorno per il regista che ripesca vecchi stilemi adeguandosi ad oggi e a nuove emozioni.
Claudio Santamaria (Willy): in parte, sentitamente vero, riesce a prendere la storia e il suo personaggio; tende a silenziare ogni intensità vacua.
Diego Abatantuono (Mario): i suoi modi ci sono sempre, il suo naso di gomma vuole sorprenderci e lo sguardo dietro le lenti appare appassito e intenso: come il suo ascolto degli altri.
Valerio Golino (Elena): partecipe e volitiva, un’attrice che cerca sempre il ‘bello’ in ogni recita.
Giulio Pranno (Vincent): colpisce la sua intensa prova; libero di farsi largo.
Regia: forse non piacevole ma efficace per luoghi e volti.
Un appunto al linguaggio: non volgare certamente ma inutilmente sovrappiù di parole inefficaci.
Voto: 7/10 (***) -cinema gitano-

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