“The Walk” (id., 2015) è il diciottesimo lungometraggio del regista dell’Illinois Robert Zemeckis.
Un film da una storia vera che tende all’eccesso didascalico del funambolo-attore raccontandosi in prima persona dall’inizio alla fine con davanti la torcia de ‘La statua della Libertà’ e dietro le icone delle Torri Gemelle (ricostruite digitalmente per la pellicola). Un eccesso che si paga e paga lo scotto di una pellicola che diventa pesante nel carburare fino all’ultima mezz’ora dove il volo e il cammino nel cielo della Grande Mela diventa epilogo troppo smaccato di un reperto archeologico per onorare la ‘disfatta’ (un sogno americano retrò) dell’11 settembre. Una dichiarazione d’intenti fin troppo evidente da subito e non trova nello spettatore una giusta tensione, soprattutto dopo una prima parte parigina idilliaca, favolistica, petulante e alla fine poco efficace per il racconto tutto.
Dopo l’uscita dalla sala (pubblico scarsissimo e questo dispiace al di là del valore di un film per il grande schermo nel nostro Paese) si ha la sensazione di una mezza delusione dove si rimpiange la lunga passeggiata verso il cielo e le corde tese dell’emozione di Petit ma non certo l’arrivo ad ogni situazione, la gloria apostrofata dall’inizio, l’ignavo cittadino che applaude e l’icona New York che appare lenta, impacciata senza uno stuolo di ‘puro americanismo’ che di sogno riesce a bere l’immaginario del francese. Tutto in un contorno sfilacciato, povero e come inventiva (prima della salita sul tetto) non certamente indimenticabile.
La scrittura risulta quindi leziosa, ordinaria e forse (troppo) pre-costruita per il ‘pulpito’ dell’eroe che declama virgola, emozioni, passi e contrattempi di cui (però) lo spettatore recepisce in minima parte. Finché non si arriva sopra la terrazza della Tower (oltre 400 metri) con tutta la cassa del mago-funambolo che la mattina del 7 agosto 1974 compì l’impresa di passeggiare sopra il filo tra le due ‘gemelle’ per più volte. Impresa da ‘pazzi’. E quindi solo nell’ultima parte il film diventa respiro e trasloco dell’anima di una città in alto col naso all’insù: tutto previsto e come sta(va) scritto il successivo arresto di Philippe.
Il ruotare della cinepresa dall’alto dentro il cuore di Manhattan ridesta lo spirito ‘americano’ di un regista che la sa lunga come conquistare il ‘cuore’ vivo di chi guarda, restato assorto per un tempo eccessivo e ora (abbastanza) palpitante da rendere godibile lo spettacolo e il biglietto d’ingresso. Come non ricordare che Petit creava le imprese con vera sorpresa (senza altisonanti schiamazzi e conferenze stampa di lancio) senza clamori televisivi e con poche persone fidate che seguivano le sue imprese. L’oggi interattivo e comunicativo è fuori distanza massima per le corde tese di un parigino e per una New York spoglia delle sue altezze nello ‘skyline’ prima dell’orizzonte.
Nel film Zemeckis ci mette se stesso ma il cilindro rimane vuoto e si ha l’impressione che il trucco (il coniglietto da far uscire fuori) rimanga in-sospeso e il clamore della personale impresa (di Petit) giochi troppo sul ‘vuoto’ di un’isola che ha ancora (e avrà per troppo tempo) da onorare i caduti (volati dal cielo) di una tragedia immane e troppo viva per ‘fingere’ e ‘trincerarsi’ dentro un ricordo-applauso alle Torri e a un filo d’acciaio. Inginocchiarsi davanti al pubblico è un in inchino doveroso a una città con i suoi morti. Forse un film che crea strane sensazioni nello spettatore dove l’arte ‘funambolica’ del maestro Rudy (Ben Kingsley) verso l’allievo Philipphe (Joseph Gordon-Levitt) sembra il piglio di una regia che non abbassa la guardia ma che gioca con noi solo ‘con l’arte della pura finzione’. E’ il rimprovero a se stesso di non ‘fingere mai’. Le ‘Torri Gemelle’ appaiono lì davanti fingendo di ‘essere in vita’; una gioia mattutina per NY che si addormenta in un sogno impossibile.
Voto: 6+.
© RIPRODUZIONE RISERVATA