Still Life: la recensione di Matelda Giachi

“Still Life” è uno di quei film che passerà per le nostre sale (probabilmente quelle piccole, di nicchia) sostanzialmente inosservato ai più.
I motivi sono svariati: niente effetti speciali, 14D, i protagonisti non sono neanche lontanamente paragonabili a Brad e Angelina, né per beltade fisica né tanto meno per fama.
E poi si sa, si sta ufficialmente aprendo la stagione dei cinepanettoni, quel genere che, a noi italiani, piace proprio tanto.
Così per elencarne alcuni.
E questo nonostante il film si sia aggiudicato il premio Orizzonti per la giuria alla 70^ edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Il che è un peccato, perché “Still Life” non è altrimenti definibile se non un bellissimo film.

Uberto Pasolini ci racconta una storia malinconica ma straordinaria nella sua semplicità. E’ quella di John May, impiegato comunale a cui è affidato il compito di occuparsi di quelle persone che sono morte senza nessuno accanto, di cercarne il parente più prossimo, qualcuno che si curi finalmente di loro.
May, che è lui stesso un uomo solo, esegue il suo dovere non con la meccanicità di un lavoratore, ma con il riguardo e l’amore di un familiare.
Eddie Marsan (Sherlock Holmes, V per vendetta, War Horse), è straordinario nel rendere la complessità e la bontà d’animo del protagonista.
Con una regia asciutta e priva di qualsiasi fronzolo, è Marsan a riempire lo schermo.

“Still Life” arriva dritto al cuore e te lo lacera dolcemente.
Lasciare la sala senza aver versato tutte le proprie lacrime è impossibile.
Perfino tu, uomo duro e imperturbabile nella tua canotta bianca da muratore, magari di nascosto, ma piangerai come non piangevi da quando quel compagno di classe cattivo ti ha rotto il tuo giocattolo preferito davanti agli occhi.

Si piange tanto. E si impara tanto. Sul valore della vita, degli affetti e dei rapporti con le altre persone.

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