Southpaw – L’ultima sfida: la recensione di Mauro Lanari

Fuqua e Gyllenhaal come Jon Favreau: a caccia della loro redenzione. Basta coi film action, basta col personaggio del bravo ragazzo. Vien’un tempo, ed è questo, in cui si cerca di mostrare i propri presunti muscoli, metaforici e non, con un film autoriale e con ruoli sempre più adulti, compless’e sfaccettati. E fu tonf’artistico: Jake e le su’ambizioni recitative colan’a picco trascinàtivi da uno script che rifugge l’originalità per tentare la summa d’ogni possibile cliché del “boxing [& wrestling] movie”. Le trasformazioni fisiche dell’attore seguono una dinamic’abusata, idem il suo torment’interiore da ex orfano ora familiarista sfegatato, idem la storia del “riscatto d’un pugile dalle stalle alle stelle”, idem le mirabolanti “scene di combattimento ch’inseguon’il colpo da KO mentr’al contrario finiscono tutt’al tappeto”. Purtroppo “mala tempora currunt” e il pubblic’osteggia le novità quanto l’audience d’una soap opera alla 8millesima puntata, la serializzione o clonazione del prodotto (!) garantisce tranquillità e sicurezza poiché conosciuto, abituale, noto, siamo giunt’alla meritocrazi’artistica ribaltata in un’epoca che cerca disperata (cf. Billy HOPE) contromosse difensivisticament’efficaci (“il titolo rimand’alla guardia più utilizzata dai pugili mancini, speculare rispetto ai destrorsi, con piede e mano destr’in avanti”) contro l’ingestibil’eccesso di “liquidità” postmoderna, cioè d’ingovernabile precarietà e instabilità nella vita quotidiana. La routine glorificata. SU RT media voto 6/10: i critici anglofoni, abituati a vivisezionar’i film per categorie (sindacal’e) iperspecializzate da giuria festivaliera, puntano al distinguo fra l’inettitudine di Fuqua e la virtuosistica performance di Gyllenhaal. Produce la Weinstein Company, così lo sforamento delle 2 or’è garantito nel solit’equivoco fra quantità e qualità, bulimia ed epicità, ipertrofia e valore.

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