“Sorry me wised you“ (id., 2019) è il ventiseiesimo lungometraggio del regista inglese Ken Loach.
L’ultimo Ken Loach colpisce ancora e lascia il segno.
Con poca simpatia verso lo spettatore ma con dolente realtà verso se stesso e la società che si vive.
Una finzione con retorica zero; alla fine un retaggio familiare che rimane e un affetto spaurito tra genitori e figli che vanno avanti sperando di essere come prima. Il prima che nessuno voleva, il prima che tutti rimpiangono, il prima di un lavoro nulla e il prima con poco futuro.
Adesso che il lavoro diventa come imprenditore
‘Scusa ci sei mancato’: una preghiera, un monito, un silenzio, un soccorso, una realtà, un epitaffio, un documento, una verità, un laconico, un padre, un figlio, una famigliare, un lavoro, un riposo, un parlarsi è un conoscersi.
Ecco che quando il pacco arriva e non ci sei. Una frase di appoggio e una gentilezza al contrario. Tutto vero quello che arriva e tutto serio quello che arriva. Una storia e storie che arriva dal vero. Kean Loach ha indagato, ha letto e ha conosciuto persone che hanno fatto i corrieri. Lavoro di velocità insidioso, maldestro e pieno di sconfitte.
Si è letto che la storia di Don Iane, un corriere morto nel 2018, abbia colpito il regista per poter approfondire tale tipo di lavoro. E una delle tante vicende, come tanti gli incontri che i corrieri fanno quotidianamente.
Ricky e Abbie sono di Newcastle, sposati con due figli adolescenti, Sebastian e Liza. Ricky perde il lavoro, vuole acquistare un furgone per avviare un’attività autonoma di corriere. Per fare questo le rinunce sono tante, dalla vendita dell’auto della moglie, costretta a girare la città con mezzi pubblici per soccorrere gli anziani a domicilio, agli orari impossibili e a vedere i figli il minimo.
La situazione non va per il verso giusto, tra problemi di salute, di consegne con quelli del figlio che non va scuola, di Liza abbandonata a se stessa e della moglie esausta, stanca senza dimenticare il sogno di comprare casa. Tutti si complica, ogni giorno e ogni momento.
Ecco che il film di Kean Loach si aggrappa ad una corda piena di colla, si arrampica ai vetri oramai sporchi, si ostina a svegliarsi(ci) dal torpore quotidiano per i valori minimi ed essenziali di un vivere sincero e di affetto.
La redenzione sembra lontana o appare dal lumicino lontano in fondo al tunnel quando il figlio maldestro e ostinato, scontroso e contro si mette con le unghie contro la portiera del furgone del padre. Vuole fermarlo in tutti i modi, vuole ricordarsi di essere presente, rivuole un padre. Moglie e figlia vogliono tornare come erano prima. Difficile e impossibile tornare indietro.
Il lavoro che non c’è, il lavoro c’è. La casa, la famiglia, il diritto sanitario, il diritto sulle persone, le questioni sindacali, gli orari, le telefonate, i litigi, le imprecazioni, i clienti assenti, il tempo che corre. E le strade della città ora impazzite e ora vuote di umanità. Una ‘Brexit’ e una ‘vita infame’.
Sentito per sentito, visto per visto. Certo che i nomi ci sono tutti da (s)fruttare per lavorare e da (s)fruttato fino all’ultimo pacco. Una lista… fino ad Amazon. Nessuno è fuori.
Orribile il dentro: un film amarissimo dove ogni inquadratura familiare è sghemba, quasi pudica, fuori porta e quantomeno scivolosa.
Ridicolizzati i grandi del commercio su strada e i pacchi (regalo) arrivano a persone ancora sulla tastiera o a fare colazione o in pigiama o assenti per spocchia o presenti e arrabbiati. Una società di forviati e delusi, di indignati e avvelenati.
Riveriti i potenti quando fa comodo: certo fanno comodo per il lavoro…ma quante rivoluzioni post-industriali siamo arrivati …: il lavoro ‘postmoderno’ di ciechi e inutili (per far numero e selezione).
You per accondiscendere ed essere cordiali: ma le distanze aumentano e i rapporti familiari (o gruppi sociali) sono al lumicino o quasi al macero. Su questo Ken Loach ha fornito l’intera filmografia senza sconti e con acidità (violenta).
Cast: Kris Hitchen (Ricky) Debbie Honeywood (Abbie), Rhys Stone (Sebastian) e Katie Proctor (Liza Jane) sono i Turner: genitori e figli. Un seguirsi e un inseguirsi nei ruoli. Senza trucchi e sbavature irreali. (Sembra) tutto in presa diretta con la cinepresa che segue a distanza e con grande rispetto (e dignità) i percorsi di ognuno e di quello che gira attorno.
Fotografia (di Robbie Ryan -Dublino-): ingrigita, instabile, sciatta e scandita.
Musica (George Fenton): interiore e intensa, isolata e non sovrastante.
Sceneggiatura (Paul Laverty); collaboratore assiduo del regista (oltre una dozzina di film): segue i personaggi (e viceversa) e scrive quello che fanno e pensano. Non un gioco macchinoso ma uno sfinito reale.
Regia di Ken Loach, non incline al gusto ma accostata alla vita (e i suoi molteplici rivoli).
Voto: 7½ (***½) -cinema nemesis-