Ruggine: la recensione di Machi87

Ruggine di Daniele Gaglianone è un film fondato sui paradossi. Paradossi di una periferia torinese di metà degli anni sessanta e paradossi della vita reale trasferiti ai personaggi, dai bambini protagonisti ai grandi.
Tutto viene reso, così paradossalmente chiaro, dalla regia e dal montaggio.
Il film racconta la storia mortifera dell’orco di periferia che sconvolge la vita della banda di bambini (filo criminale, primo paradosso), del capo banda Carmine, di Sandro e Cinzia, coinvolgendo la vita dell’intera periferia, di cui fino al ritrovamento dei due cadaveri di bambina non si sa nulla, proviene soltanto un’eco attribuita al padre di Sandro, che lo intima a stare alla larga dal Castello (dimora della banda).
L’orco è interpretato da un credibile Filippo Timi, che a tratti ricorda il Mussolini di Vincere e a tratti il padre-forte di Come Dio comanda; ma che si scarica presto d’attese perché ancorato al cliché del matto acculturato filo hitleriano con istinti omicidi (di fatto è il pediatra stimatissimo dagli adulti, altro paradosso, e scandisce le sue azioni gorgheggiando la Furtiva Lagrima di Donizetti). Il dottor Boldrini dalla prima inquadratura desta angoscia e inquietudine e viene descritto magnificamente dalla battuta di Cinzia “se lo diciamo ai grandi non ci credono”. Battuta che la stessa si porterà dietro (come il segnalibro regalatole da Sandro) fino al collegio di classe, in cui la ritroviamo professoressa di Arte e Immagine intenta a difendere un alunna (probabilmente vittima delle molestie del patrigno), e che fa riecheggiare nella sua vita e in quella di Stefano Accorsi e Valerio Mastandrea (Sandro il primo e Carmine il secondo) i ricordi di quella infanzia assai ingiusta.
Accorsi sembra volerla cancellare giocando per tutto il film con suo figlio (ulteriore paradosso poiché suo padre era assillato dalla crescita dello stesso Sandro), Mastandrea sembra invece volerla cancellare restando da solo (ennesimo paradosso perché la forza del singolo è la forza del gruppo) in un bar abbandonato bevendo e polemizzando.
Tutti e tre insomma, in una proiezione trent’anni dopo, sentono forte l’esigenza degli altri, ma sono soli, ognuno con la propria vita e il proprio ricordo che non svanisce; finché nell’onirica scena dei titoli di coda, sono nella stessa carrozza della metro, secondo cliché, ma stavolta inaspettato.
Bisogna sottolineare il merito del bravo Gaglianone e del suo montatore (Enrico Giovannone) di non appesantire il racconto dei fatti, che per loro natura devono seguire lo stesso ritmo lento della realtà in cui accadono, con una regia e un montaggio molto innovativi.
Il film non è sicuramente per tutti, perché al di là della storia (forte quanto la vita), lo sperimentalismo e i paradossi di cui vive, possono infastidire alcuni spettatori, ma per fortuna l’arte è sempre soggettiva. Infine un plauso alla produzione e alla distribuzione perché è giusto che il cinema italiano si riappropri della sua realtà, che l’ha fatto immenso negli anni del neorealismo.
M.P.

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