Ritorno al Marigold Hotel: la recensione di Luca Ferrari

Vite da Marigold hotel

Sentimentalismo, spruzzate Bollywoodiane, ironia e saggia malinconia. Ritorno al Marigold Hotel (2015, di John Madden) fa il suo dovere di storia moderna tra schiette introspezioni senza malinconie né facili sorrisi. Sono rimasti (quasi) tutti là, in India. Douglas (Bill Nighy), Evelyn (Judi Dench), Norman (Ronald Pickup), Carol (Diana Hardcastle), Madge (Celia Imrie) e ovviamente lei, la ruvida Muriel Donnelly (Maggie Smith), novella co-proprietaria del Marigold Hotel al fianco dell’acerbo e impulsivo Sonny Kapoor (Dev Patel), questi in procinto di sposarsi con la bella Sunaina (Tina Desai).

Avviato finalmente l’hotel, adesso c’è una nuova sfida da affrontare: ampliare il business, e per farlo sono volati negli States. Ma se per convincere i futuri partner Sonny se ne esce con un imbarazzante slogan in stile “Venite a passare gli ultimi anni di vita da noi,” Mrs Donnelly, in puro stile British proud, snocciola un’epica lezione su come si serva una tazza di tè. Gli ospiti permanenti del Marigold intanto proseguono le loro nuove esistenze, chi tra nuovi lavoro e profonde riflessioni esistenziali, chi più alla ricerca della pace (quiete) economica. Due nuovi personaggi intanto fanno il loro ingresso nell’hotel. Uno è l’affascinante Guy Chambers (Richard Gere), l’altra è Lavinia Beech (Tamsin Greig). Convinto che il primo sia il misterioso ispettore americano venuto in incognito per valutare l’affare, Sonny lo riempie di logorroiche attenzioni trascurando in modo maldestro l’altra cliente.

Passano gli anni ma l’essere umano si porta appresso sempre le stesse debolezze e illusioni sulla felicità. Arriva un giorno però in cui, dinnanzi all’ennesimo bivio della vita, non si dovrà girare né a destra né a sinistra. Semplicemente si proseguirà diritti e spediti. Impauriti ma convinti. Non resterà nella storia questo Ritorno al Marigold Hotel però la pellicola offre spunti su cui riflettere e magari correggere qualche pezzo del nostro cammino. Richard Gere poco valorizzato e quasi superfluo a differenza del Tom Wilkinson del primo Marigold Hotel (2012). Maggie Smith invece, über alles. La sua Muriel Donnelly ha più spigoli Scroogiani che delicatezza, ma non ha importanza. È onesta, segretamente profonda e un po’ arcignamente incompresa.

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