Jen (Matilda Lutz), ragazza giovane, sexy e formosa, è la prorompente amante di un miliardario francese, Richard, che la ospita in casa sua, nella lussuosa villa in cui si trova per portare a termine una tradizionale battuta di caccia con due amici.
A pochi passi del Grand Canyon, la situazione prenderà però una piega inaspettata, precipitando a sua volta in un cratere di prevaricazione e disperazione senza fine. Gli uomini, compreso il compagno di Jen, sono tutt’altro che ben disposti nei confronti della splendida Jen e il loro desiderio esploderà in modi e forme fameliche e predatorie, lascive e aberranti, che la ragazza non poteva prevedere…
Revenge di Coralie Fargeat non è soltanto uno degli horror più estremi, sbarazzini e sorprendenti degli ultimi anni, ma anche la rivelazione di un doppio grande talento. Innanzitutto quello della regista francese, che per questo suo grande passo dietro la macchina da presa si regala una messa in scena patinata ma grondante e vigorosa, che dopo una prima parte intenta ad accumulare fascinose premesse e inquietanti atmosfere piomba in un secondo blocco totalmente impazzito e fuori controllo.
In esso il corpo, nella sua accezione più pura e sfrenata, si fa oggetto resistente, baluardo contro ogni vergogna subita, vessillo fantasy di rivalsa femminile all’insegna di una nuova carne da riaffermare. Autentico perno di questo horror al femminile che ha raccolto un grandissimo successo allo scorso Torino Film Festival, dov’è stato presentato nella sezione After Hours.
E poi quello, altrettanto strabiliante, di Matilda Lutz, che dopo aver brillato in The Ring 3 si concede questo instant cult da scream queen definitiva: un ruolo di genere che pochissime attrici possono vantare e che lei, con coraggio e sana voglia di osare, è già riuscita a ritagliarsi alla soglia dei 26 anni.
Tutta lacrime e sangue, sudore e spine, lame e corpi estranei da inoculare e poi da espellere – perché dopotutto siamo di fronte a un grande horror sulla necessità etica ed estetica del rifiuto, sulla rivoluzione che sta dietro l’atto del rigetto – la sua interpretazione è davvero enorme in termini di fisicità e d’impatto, sul grande schermo e sulla possibilità di empatia concessa allo spettatore.
Soprattutto per il modo in cui la Lutz, con una discesa agli inferi gestita come un’orchestrazione di situazioni al limite, si spoglia degli abiti loliteschi e succinti che fanno capolino all’inizio, abbracciando senza alcun tipo di remora una scia infernale e ovviamente estremamente cruenta di violenza. Come fosse, a tutti gli effetti, un’arma da fuoco da impugnare, sola contro il mondo.
Lo stupro subito da Jen, all’apice della sua giovinezza e sfrenatezza sessuale, trasforma dunque il sex appeal della protagonista in una danza macabra di rivalsa, il survival movie e il rape & revenge movie in due terreni da caccia a perdita d’occhio da far collidere pericolosamente. Non senza pepata ironia, con le esigenze dei tempi del #MeToo a scandire l’humus culturale del film.
In questo scontro tra titani restano, perfettamente visibili, le scorie radioattive di un presente scomodo e contraddittorio. Rappresentate al meglio, in chiave metaforica e con un innato senso del godimento estetico e audiovisivo (il piano sequenza finale è pazzesco!) da questo film dell’orrore sexy e riottoso. L’oggetto più femminista e provocatorio dell’anno, senza se e senza ma.
© RIPRODUZIONE RISERVATA