Stranger Things: il Sottosopra adesso è un vero incubo. La recensione della quarta stagione

La prima parte della nuova stagione della serie arriva su Netflix a partire dal 27 maggio

stranger things 4 recensione
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (3.5)
Montaggio (2)
Colonna sonora (3)

Dall’uscita della terza e finora ultima stagione di Stranger Things, il mondo è finito davvero sottosopra: ci sono voluti tre anni e molti dubbi per vedere finalmente i nuovi episodi di una delle serie che hanno contribuito al successo di Netflix (e del suo algoritmo), ma l’attesa è finalmente finita. Dal 27 maggio escono i primi sette episodi della quarta stagione, una lunga maratona che si concluderà il primo di luglio con gli ultimi due capitoli.

La storia è cresciuta, proprio come i “nuovi Goonies” che dal 2016 hanno toccato a ripetizione le corde della nostalgia anni ’80. All’inizio della quarta stagione, ritroviamo Eleven (Millie Bobby Brown) completamente cambiata: senza poteri né sicurezze, cerca il suo posto nel mondo in California, dove si è trasferita assieme alla famiglia di Will per allontanarsi dalla dolorosa Hawkins, dove ha visto morire il padre putativo Jim Hopper (David Harbour). Nel frattempo, le cose nella cittadina dell’Indiana non vanno meglio: una nuova serie di brutali e inspiegabili omicidi convince i giovani protagonisti rimasti in città che nel Sottosopra si stia muovendo un’altra creatura demoniaca – e naturalmente sembrano essere i soli a poterla fermare.

Con la quarta stagione, Stranger Things si conferma una sorta di fast food del citazionismo nostalgico: i nuovi episodi ripropongono gli stessi ingredienti, lo stesso canovaccio e lo stesso confezionamento, ma in versione extra large. L’analogia viene facile: la serie è cresciuta tanto quanto i suoi protagonisti e interpreti, ha acquisito più maturità di genere e non si limita ad appoggiarsi su quegli archetipi che ne costituiscono l’ossatura, ma cerca di camminare da sola. I riferimenti sono ancora una volta chiarissimi – e a cingere tutto in uno stretto abbraccio questa volta è Nightmare on Elm Street di Wes Craven – ma invece di giocare solo di sponda e adagiarsi su un citazionismo tanto piacevole quanto alla lunga stucchevole, ora la storia sembra più inquadrata in un suo orizzonte preciso.

Stranger Things ha alzato quindi il livello, espandendosi non solo geograficamente ma anche nella messa in scena e negli elementi produttivi in campo. Tuttavia, viene da chiedersi quanto di questo merito sia dovuto ad un’effettiva nuova sensibilità artistica e quanto invece all’aver semplicemente allungato gli episodi – si va da una media di 70 minuti a puntata fino ad un finale soffocante da 150 minuti (due ore e trenta!).

Il dubbio, legittimo, è che la quarta stagione di Stranger Things sembri più matura solo perché quel citazionismo che ha fatto da matrice nelle prime stagioni è stato diluito su un arco di visione molto più lungo, tanto da non compattare tutto e rischiare l’effetto buffet tra easter egg, rimandi e strizzatine d’occhio. La durata degli episodi impone inoltre una riflessione a parte sullo stato del cinema e della serialità nell’era pandemica: film e serie realizzati dopo il periodo del lockdown sembrano segnati da una lunghezza talvolta spropositata o peggio ingiustificata, come se si fosse perso il senso della misura o lo si fosse adattato ad una nuova (e presunta) modalità di visione “da quarantena”, più libera e accomodante.

Quel tempo però (incrociando le dita) è finito, il mondo è ripartito e di conseguenza questa logorrea narrativa rischia di essere esagerata, pesante e respingente per chi da una serie come Stranger Things chiedeva “solo” di sentir di nuovo parlare la propria koinè generazionale, tra una citazione a Freddy Krueger e un ricordo delle prime campagne a Dungeons & Dragons

Foto: Netflix

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