Pietro e Bruno sono poco più che bambini e nemmeno adolescenti quando si conoscono in montagna, dove il padre di Pietro – borghese, ingegnere, appassionato di cime e sentieri – lo porta in vacanza tutti gli anni. Bruno invece è figlio di quelle valli, di lì non si è mai mosso e forse mai si muoverà, un po’ come il pianista di Baricco in Novecento dalla sua nave. I due compongono in breve un’amicizia profonda e curiosa delle reciproche diversità, entrambi aspirano ai mondi dell’altro. Ma gli anni passano, l’adolescenza arriva, i ragazzi si allontanano e Pietro litiga continuamente con suo padre, rifiutando di tornare tra i monti. Per molti anni i ragazzi non si vedranno più. Poi, per necessità, tutto ricomincerà…
Girare un film in alta montagna è una faccenda diversa, la natura impone al cinema il suo clima, la sua conformazione, una certa natura del suono, quindi un atteggiamento generale del corpo e dello sguardo, tutte cose che ricadono in ultimo sugli strumenti che costruiscono il film: la recitazione, la regia, la fotografia. La sensazione è che ci volesse allora una sensibilità particolare per tradurre il romanzo Premio Strega di Paolo Cognetti Le otto montagne in un lungometraggio, una predisposizione all’ascolto del contesto e alla perdita di un controllo diciamo “convenzionale” sulla macchina produttiva, in favore di un gesto cinematografico liberato, curioso. Bisognava – diciamolo in modo un po’ grossolano – che si girasse e recitasse come si cammina per i sentieri, con attenzione, rispetto e una certa continua attitudine alla scoperta, all’improvvisazione d’ambiente.
Non lo so, così su due piedi non mi viene in mente, se ci sarebbero stati in Italia – dove abbiamo scuole registiche improntate generalmente a un formalismo un po’ legnoso, a un americanismo di riporto (più che all’esempio francese) – autori capaci di tirare fuori questo film, ma certamente affidarsi a Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, i registi belgi di Alabama Monroe, è stata una scelta vincente. I due usano transizioni di montaggio non intuitive, non sottolineate, per i molti scarti temporali e geografici del racconto di Cognetti, e il formato 4:3 dell’immagine per valorizzare la verticalità del paesaggio, come se la ferma quiete della dimensione terrestre – del pascolo, delle vacche, dei laghi, della neve, del legno – sovrastasse persino la lingua del cinema, la sua spazialità e la sua retorica.
Questa volontà di levare tutto, di scartare il superfluo alla ricerca della (propria) storia, che è poi il viaggio degli uomini di Cognetti, dona ai sentimenti precipitati nel percorso, in particolare quelli che legano Pietro (Luca Marinelli) al ricordo del padre (Filippo Timi), una vividezza profondamente commovente. Sono tutti bravissimi in questo film che sembra mettere la parola rispetto davanti a ogni cosa – rispetto del testo, rispetto dei luoghi, rispetto delle relazioni umane, anche nelle loro terribili distrazioni, rispetto dello spettatore e della sua intelligenza: Marinelli mi pare sempre il più grande interprete italiano nella misura, nell’esattezza, Alessandro Borghi lo sta diventando nella trasformazione: il lavoro che fa su Bruno, il ragazzo che sa solo vivere in montagna, è travolgente, così sentito che si immagina un’immedesimazione che ha trovato appiglio nella sua natura. E poi Elena Lietti (la madre di Pietro) e soprattutto Timi, che prima in scena e poi fuori è in qualche modo l’anima del racconto – la memoria dei padri, che un tempo pare nulla e invece scopri che è roccia dolomitica.