Assassinio sul Nilo: non per soldi, ma per amore. La recensione del film di e con Kenneth Branagh

Cinque anni dopo, il regista e attore nordirlandese torna nei panni del famoso investigatore belga

assassinio sul nilo
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (3)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (3.5)

Dopo aver portato con grande successo sul grande schermo un nuovo adattamento di Assassinio sull’Orient Express, Kenneth Branagh non lascia ma raddoppia il suo interesse per un’icona letteraria e cinematografica dai tratti immortali e inconfondibili: Hercule Poirot. Cinque anni dopo, il regista e attore nordirlandese si liscia nuovamente i baffi per imbarcarsi in un nuovo giallo: Assassinio sul Nilo.

Secondo adattamento del romanzo di Agatha Christie dopo quello del 1978 con Peter Ustinov, Mia Farrow, Angela Lansbury e Lois Chiles, Death on the Nile segue lo stesso canovaccio narrativo che ha fatto le fortune della Regina del Giallo: il viaggio sul Nilo di un gruppo di persone per il matrimonio tra la ricchissima Linnet Ridgeway (Gal Gadot) e Simon Doyle (Armie Hammer), viene rovinato prima dalla presenza dell’ex fidanzata di lui (Emma Mackey), quindi dall’omicidio della stessa novella sposa. Tocca di nuovo a Poirot risolvere il caso, mettendo al lavoro le sue celebri “celluline grigie”.

Se il genere è ampiamente e brillantemente codificato come un locked-room mystery (i misteri della stanza chiusa dall’interno), per la sua seconda incursione nell’universo narrativo di Agatha Christie Kenneth Branagh sceglie un approccio diverso: le vicende sull’Orient Express avevano riguardato il confine tra etica e morale, qui il crimine ruota attorno all’amore nelle sue varie forme. Passione, gelosia, lussuria, possesso: una gamma di sfumature che toccano da vicino anche lo stesso protagonista.

Branagh riesce infatti a coinvolgere personalmente il suo Poirot nei temi sui quali indaga, dando profondità emotiva al celebre investigatore ed evitando che resti un’impalpabile seppur egocentrica presenza sullo sfondo. Senza il suo passato, Poirot non sarebbe stato in grado di risolvere il mistero dell’omicidio di Linnet, ma al contempo la chiamata implica un abbandono: diviso tra dolorosi ricordi e consapevolezza delle sue capacità, il Poirot di Branagh si eleva così al grado di super eroe drammatico, costretto alla reclusione sentimentale per diventare ciò che è destinato ad essere.

Rispetto ad Assassinio sull’Orient Express, Branagh smussa al contempo alcuni degli aspetti meno convincenti del suo approccio al personaggio: il suo secondo Hercule è meno vanesio e meno eccessivamente incasellato nello spettro autistico, ma più umanizzato senza comunque perdere in fascino ed efficacia.

Oltre all’aspetto strettamente legato al protagonista, c’è il mistero in sé: poche storie hanno il potere di zittire un’intera sala nei momenti clou, di far dondolare lo spettatore tra il mistero e la sua soluzione senza farlo agonizzare nel torpore smanioso di un affrettato disvelamento. I doppi panni vestiti da Branagh in questo senso sono ideali per lo scopo: Assassinio sul Nilo gode del suo privilegiato punto di vista interno ed esterno, il Branagh-regista cura inquadrature e ritmo – grazie soprattutto al ricorso al blues – di modo che chi osserva da fuori possa sempre stare al passo con il Branagh-interprete. Un doppio binario narrativo e visivo che non rischia di rovinare nulla a chi arriva in sala senza conoscere già il caso e la sua risoluzione, ma di dosare indizi e sospetti tenendo in equilibrio il gioco delle parti.

Il finale di Assassinio sul Nilo sembra già chiudere il cerchio, ma il sempiterno fascino del più famoso investigatore privato assieme a Sherlock Holmes potrebbe richiamare di nuovo Kenneth Branagh all’impresa: gli omicidi da risolvere non mancano, è le celluline grigie smaniano sempre per tornare al lavoro. 

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