Sandra (Katrina Bowden), ex popstar in viaggio verso Los Angeles all’interno di un futuribile suv nero – impenetrabile e iper accessoriato -, si ritrova estromessa dal suo veicolo sotto il sole del deserto. Al suo interno rimane intrappolato però il figlio di due anni: Sandra inizierà così una disperata corsa contro il tempo nel tentativo di scardinare la resistenza dell’automobile prima che il piccolo faccia una brutta fine.
Primo film co-prodotto dalla Sergio Bonelli Editore, basato su un soggetto di Roberto Recchioni, segue l’arrivo nelle librerie della graphic novel omonima in due parti sceneggiata da Mauro Uzzeo e disegnata da Lorenzo Ceccotti. Un’impostazione che non resta solo sulla carta: il film ha un taglio marcatamente “grafico”, cioè essenziale ed evocativo, con una gran quantità di immagini dal forte portato simbolico.
L’automobile protagonista che dà il titolo al film, dal nome kubrickiano e dal design massiccio e compatto, è il cuore pulsante di un esercizio di tensione che da un lato si pone l’obiettivo ambizioso di dialogare per esempio con il cinema di John Carpenter, dall’altra contiene saggiamente le sue smanie su minutaggio modesto, investendo in metafore e implicazioni concettuali. Ne viene fuori un concept movie forse artigianale, ma che punta dritto all’obiettivo e porta a casa il risultato. Monolith è un pezzo di tecnologia indifferente, contrapposto alla forze basilari della natura, ma pericoloso non meno di un deserto assolato.
C’è però un testo in più sotto la manovra primaria del thriller: il viaggio rispecchia le paure di una giovane donna, una maternità sofferta e forse tradita da un marito lontano. La paralisi rappresentata da un guscio uterino senza volto, è allora evidentemente anche la paralisi di una psiche: una simbiosi fatale tra corpo umano e meccanico.
Il regista Ivan Silvestrini si concentra su questo nucleo del film come fosse una zona d’ombra a metà tra sogno e realtà, sganciata dal flusso del quotidiano (le telefonate iniziali inanellate come in Locke di Steven Knight) e ancorata a una corsa contro il tempo che non alimenta altro che se stessa, le proprie mancanze, i propri battiti interrotti.
La barriera di una portiera che non si apre diventa così il massimo dispositivo poetico di questa storia, come sempre lo è, nel cinema che si nutre di cinema in maniera libera e sfrontata, il confine, lo steccato, l’ostacolo oltre il quale gettare il cuore.
Mi piace: la vocazione internazionale dello sguardo di Silvestrini, la sua gestione dei tempi e degli spazi, la capacità di gettare il cuore oltre l’ostacolo
Non mi piace: la stringatezza dell’insieme, che però è assolutamente ed efficacemente funzionale alla causa del miglior b-movie possibile
Consigliato a: chiunque vada in cerca di un cinema italiano contemporaneo, pulsante, combattivo, in grado di rivaleggiare con modelli alti e di imporre alla narrazione (e agli spettatori) una sfida tutt’atro che al ribasso
Voto: 4/5
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