Tom Cruise, in una recente intervista, ha dichiarato: «Studio architettura, mi piace girare il mondo. Scrivo delle lettere d’amore a tutte le location in cui lavoro e ho imparato a pilotare davvero un elicottero in alcune scene del film. Se ho avuto paura? No, no, no…».
In queste parole, apparentemente banali, c’è tutto ciò che rende la saga di Mission: Impossible un congegno action sempre più preciso e infallibile, assemblato con grazia ingegneristica, a misura di amore ma con perizia quasi scientifica, anche grazie all’impegno totale e ammirevole del divo americano.
Nel sesto capitolo del franchise, Mission: Impossible 6 – Fallout, in sala in Italia dal prossimo 29 agosto, Ethan Hunt (Tom Cruise) e il suo team IMF (Alec Baldwin, Simon Pegg, Ving Rhames) si ritrovano a dover fronteggiare la solita sfida contro lo scorrere implacabile del tempo per far fronte a una minaccia, faccia a faccia con rischi enormi e possibilità di riuscita prossime allo zero.
Accanto a loro le consuete figure femminili, divise tra algida fierezza (Rebecca Ferguson, ex agente britannico doppiogiochista, con cui Hunt flirta), tiepida, sbiadita, romantica nostalgia (Michelle Monaghan, l’adorata moglie Julia da ritrovare), col sogno iniziale di Ethan Hunt a fare da apripista: grimaldello e chiave di volta a misura di fantasia e di evasione, collante perfetto di desideri irrealizzabili e salti impossibili in cui rischiare puntualmente la pelle.
Se già il capitolo firmato da J.J.Abrams, Mission: Impossibile III, mostrava qualche incrinatura nel Cruise supereroe, Fallout fa lo stesso e anche di più, non censura il tempo che è passato (lo stesso Cruise è sulle barricate con la consueta autoironia, umanissimo e arrugginito, ma immortale) e consolida il tocco vintage e passatista di Christopher McQuarrie, che sale a due film diretti dopo Rogue Nation, imbevuto di atmosfere da Guerra Fredda, e diventa così il più longevo regista della saga, nonché l’unico a tornare a bordo stretto giro.
Perfettamente a suo agio nel coreografare e calibrare al millimetro un copione agile e magnetico, che trae linfa vitale anche dall’inverosimiglianza e dalle voragini. Sempre funzionali allo stupore, al disegno affinato e slanciato di un blockbuster sinuoso ed elegante come pochi altri, che non dà segni di cedimento nemmeno alla soglia veneranda dal sesto film.
Anzi: si tratta, con ogni probabilità, del miglior capitolo della saga dai tempi del primo film di Brian De Palma del 1996. Un prodotto in cui McQuarrie si lascia alle spalle in un colpo solo il gigantismo ipercinetico di Woo, la drammaticità tesa ma stucchevole di J.J. Abrams, il luna park per adulti di Brad Bird e corona quanto fatto da lui stesso nel film precedente, muovendosi in agilità tra bellezze dal fascino mortale e bombe nucleari, per non parlare del plutonio da recuperare e del terribile Sindacato da affrontare.
Non è un caso che McQuarrie abbia voluto fare un greatest hits dei quattro precedenti film, guardando insieme a Cruise Intrigo internazionale e Notorious – L’amante perduta: non certo per rifare Alfred Hithcock sul terreno del cinema commerciale di oggi, ma quantomeno per essere sintonizzati, con gli occhi e con il cuore, con quell’idea quasi danzante di mistero e di erotismo, di tensione spionistica e temi musicali da capogiro. Quello, irripetibile e iconico, di M:I è affidato per la prima volta a Lorne Balfe, che gli cuce addosso un bel restyling, martellante e infuocato proprio come i titoli di testa.
Lo stesso che McQuarrie regala all’impaginazione dell’epopea di Hunt, che con Fallout ha raggiunto un taglio editoriale invidiabile per quantità, qualità e dono della sintesi. C’è dentro quasi tutto quello che di valido ha questa saga, con in più sentimento, ritmo e una sensibilità europea che non guasta: basta vedere gli inseguimenti girati a Parigi, la scazzottata nel bagno della discoteca notturna, l’apporto della capitale francese alle scene, col suo cielo unico e irripetibile, e la finezza sbarazzina delle scene d’azione consumate a due passi dalle brasserie francofone.
Per non parlare del modo in cui Cruise non si limita a lasciar morire degli innocenti per il bene comune, ma riscopre a più riprese la debolezza del disegno umano, la natura precaria e transitoria del proprio eroismo, persino il dispiacere dell’impotenza. Frammenti di umanità, calati a meraviglia dentro lo stupore inebriante dell’adrenalina, destinato a sopravvivere, a sopravviverci. Ben oltre le ferite di un tempo spietato e di un eroe che, in fondo, forse vorrebbe conoscere solo il sollievo dalle responsabilità che si allentano, la dolce carezza dell’abbandono.
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