“Mia madre” (2015) è il dodicesimo lungometraggio del regista di Nanni Moretti.
In un pomeriggio con idee minime e conoscenze misere meglio evaporare in sala per vedere un film in uscita: di fronte ad una platea sguarnita (11 teste per oltre 300 posti) ecco il nuovo di Nanni Moretti che oramai si attende (nel giusto) e si fa attendere (anche oltre) per un lustro. Ogni sogno (di oramai vecchia memoria) è svanito e ciò che sembra è da cerchiare in contro balzo tra una corsa(etta) mangiando una pastiglia di zucchero e un profumo di un odore quasi del tutto svanito.
Il film lascia senza vera commozione e il distacco si erge salutare tra il vivere in un set ansioso e il paradigma chiuso di una morte che è lì e non catalizza il sentimento di un distacco.
Nell’excursus del film si trovano tocchi, alienazioni, testi e valutazioni morettine dove il disegno dell’acume intellettivo è nello scontro acido-arioso, algido-nervoso, sordo-tedioso tra un fratello (Giovanni) e una sorella (Margherita) che si ritrovano tra il corridoio di un ospedale e il letto di una madre stanca della vita come di contro una casa da sistemare e un set angustiato(amente) ansiogeno.
Mentre ogni gioco di contatto tra i due (con un telefonino che fa la comparsa in un film dell’attore-regista quando in ogni dove non era consentito neanche l’uso del telefono fisso -si veda ‘La stanza del figlio’ del 2001-) tra un set in evaporazione (la sorella regista) e una realtà in crisi (il fratello ingegnere in aspettativa). Un riposo quello di Giovanni che sembra datato: sì attendo libero in testa per non saper dire cosa fare e convenire qualche battuta per (cercare di) incollare la storia di un film da finire.
Un Moretti d’annata senza il piglio dei tempi che furono e di un’ispirazione che manca: lento e inusuale con poca partecipazione collettiva e un coinvolgimento troppo bloccato sulle sue esternazioni (dilatabili, raccoglitrici, languidamente gioiose) che sì appagano un palato di encomio facile ma che destano silenzi di lentezza espressiva con generosa alchimia (un po’ artificiosa).
E lo stile espressivo appare scarno, ligneo, saltuario e, per certi versi, poco corroborato da una sceneggiatura singhiozzante che non sparge sintesi di cinema di alto livello. Le ambientazioni ruvide e poco dilatate restano ancora in posa come in un gioco di collegamenti di altri luoghi già visitati: come non pensare alla panchina di ‘Caos calmo’ (2008, di Antonello Grimaldi) dove Pietro Paladini evoca il senso del dolore (in minimo) mentre Giovanni seduto con Margherita manifesta un appagamento di posto senza conviverlo con chi vede e sente (il dolore non cammina più). In contraltare l’intorno è schiacciato da selciato rotto e da tagli diretti come da specchio (in allodole scomparse) ancora da appendere. E’, insomma, una storia poco combaciante e caoticamente in attesa di partire fino ad un epilogo già scritto (negli straniti di una Margherita che non riesce a concludere nulla).
Un puzzle per niente adorno e partecipativo. Il sicomoro della battute resta da far salire per alimentare il resto del film. Ecco, come un elenco a caso, ciò che la pellicola ricorda (nello sguardo):
Il pasto all’ospedale: si parte, è pronta la pappa (quando si dice si vive per mangiare senza sapere una sola parola di latino) con le posate già in ordine; Margherita osserva con dovizia.
L’aeroporto e l’attore: dorme appena arrivato, il risveglio in un film che non conosce e il gioco della lingua di Barry appare (alla lunga) stantio, slegante e (anche) fastidioso).
Il telefonino: e Nanni si era già svegliato e con poche battute riesce a comunicare (dall’ospedale) con la sorella per poter chiudere con il tasto giusto (on o off…già…rossa palombella); basta adeguarsi per non essere troppo retrò.
Il set: e Margherita (Buy) si fida troppo del suo personaggio per non sembrare troppo viva riesce a ingoiare ogni battuta di un film (che è apostrofato volgarmente dall’attore americano) mentre resta il dubbio di una capacità non piena completamente (meglio assecondare il vero regista).
Il verbo: quando essere è avere (dativo per Giovanni), quando lo scherzo di un ingegnere fasullo sa anche la lingua morta; quando i libri sono da toccare; quando la scrittura è ancora da migliorare.
La fila al Capranichetta (siamo a Montecitorio): quasi interminabile e paradigma della morte dell’immagine e del sogno cinema, di un cinema sala che oggi è chiuso; è tra i tanti Giovanni per entrare e per ricordarsi mentre passa Margherita: ‘1 su 200’ tenta così per raddoppiare quello che è già raro per cui rarità su rarità egli preferisce guardare quello di ieri perché oggi è in crisi e non ha più niente da dire; fine fila e oltre una conoscenza tra gli ultimi. E’ proprio vero che il il film da girare è ancora in alto mare.
Il Ballo di Barry Huggins (come da paria alla partita di pallavolo in ‘Habemus Papam’): scherzoso di un ‘riso amaro’ lontanissimo (irriverente scomodare il duo Mangano-Gassman) che pare dilatato e alquanto indigesto (Turturro ultimo da Allen passeggia in Italia come un ‘gigolò per caso’ da sistemare) fino a pensare sulla sua utilità (del ballo e dell’attore John-Barry nel film); basta non pensarci più.
La realtà: vivere dentro un miscuglio di problemi (perché il film –in sottotraccia- è una m…. come si dice) tanto il silenzio di un set in passeggiata notturna è un silenzio salutare.
Il letto di Morte (pare un corpo ‘laico’ alla ‘Mantegna’): ma rimane l’(a)essenza della povertà dell’emozione; madre di ogni destino che ancora deve incontrare i suoi ex alunni.
‘A domani’: sì perché il giorno dopo promette qualcosa di buono. Il domano morettiano ridesta il sogno (d’oro) di un cinema in balia di se stesso. Appunto.
Voto: 6-.