“L’ultimo lupo” (Wolf Totem, 2015) è il tredicesimo lungometraggio del regista francese di Jean-Jacques Annaud.
‘Sta arrivando il vento dai capelli bianchi’: il vento che spazza tutta la storia mongola e la fa rivivere dentro l’immagine l’intento di una cultura secolare. E’ lo scontro visivo tra la bellezza dei luoghi e il disegno umano di gente in continuo movimento. Il nomadismo come modello itinerante e come simbolo di un popolo schiacciato: ‘sono gli altri che hanno fatto la storia della Mongolia’ si dice nel film. Un territorio desolato soverchiato dalla vicina cultura predominante cinese.
Il cinema di Jan-Jacques Annaud è diatriba di opposti che si ammirano e non vogliono (assolutamente) elidersi: il compiacimento del gusto dell’immagine è solo spazio degli occhi, vista serena, storia di una terra e archivio silenzioso di un vero racconto che implode nell’armonia della vita nomade. Il girovagare delle tribù mongole è un appiglio al chiarore mattutino, alle voci lontane dei cieli e allo spirare virulento di una notte che chiude l’orizzonte di un intero paese. La natura e l’uomo confluiscono nel cinema del francese al contorno d’assalto della forza visiva degli animali che sprigionano ogni destino avverso e tutta la miseria di una vita prosaicamente eccitante. La poesia intimista e sapiente va ricercata nei piccolissimi particolari e nelle minime sfumature che vanno al di là (assolutamente sì) della mera inquadratura del paesaggio, del buio o delle luci chiarificatrici delle lontane stelle. E’ il popolo della tribù insita in ciascuno per un viaggio di non ritorno dal grembo che vuole fecondare ad una morte del vecchio saggio per salutare (come da pari) quello del lupo, stanco e sfinito, che riposi anch’esso senza tomba verso l’ignoto (la morte a contatto col paesaggio e dentro allo stesso).
Il film di Annaud recita una cronistoria lontana dall’enfasi centrale e in un mondo perso e senza sosta. Siamo nel 1967, quando durante la Grande rivoluzione culturale di Mao, lo studente Chen Zen viene mandato nella Mongolia più isolata, tra le tribù nomadi, per insegnare ai bambini ciò che viene dalla Cina. La sua ‘cultura’ è tutta in una valigia piena di libri: da toccare, assaporare e leggere per le generazioni di quelle lontane terre. La Muraglia è oltre ogni orizzonte e chi va per dare idee ne apprende come un allievo provetto: Chen resta affascinato dal mondo che tocca, dalle abitudini, dal vivere e dalle storie sui lupi, animali nemici che affascinano lo sguardo del ragazzo di città. Il lupo ultimo avvisaglia del nemico da distruggere per la Cina di Mao e del potere centrale. D’altronde i Mongoli sono solo ‘ostaggi’ di una cultura non loro e il mondo delle tribù è l’ultima avvisaglia di una resistenza a ciò che non si vede. I cavalli rappresentano la forza viva di un comando e di una responsabilità del continuare a vivere. E la ripresa dall’occhio del quadrupede è un gioco di lenti che il regista ci proietta. E come un destino il cavallo che ha paura in un confronto (omaggio) al film di Spielberg ‘War Horse’ (2011) dove Joey ci offre il suo punto di vista come quello del film di Annaud. L’animale entra in gioco nel film come partecipe necessario e i lupi ne danno un’immagine speculare. Così Chen vuole crescerne uno (contro il parere di tutti) da cucciolo: ma il suo ‘lupetto’ creerà fastidi, danni e pericoli alla vita dei nomadi.
Il regista francese ha dichiarato che dirigere gli animali è ‘come farlo con neonati, bambini e attori non professionisti,… ci vuole un po’ di pazienza’. E Annaud ha dimostrato molta attesa e dimestichezza nel girare film con animali (ricordiamo ‘L’Orso’ del 1988 e ‘Due fratelli’ del 2004) con bravura riconosciuta e senz’altro da valutare in modo diverso; si deve dire che alcune sequenze di ‘L’ultimo lupo’ sono veramente affascinanti, armoniche e semplicemente di grande impatto visivo. La fotografia di Jean-Marie Dreujou (che ha già lavorato con il regista) rendono le immagini incantevoli e avvincenti così, senza storia e commento musicale, e danno un senso di appagamento allo sguardo dell’uomo fuori da ogni confine per una natura di straordinaria bellezza. E va da sé che il mondo nomade mongolo arricchisce ogni disegno umano (e nel film si vede l’essenzialità della loro vita): e ancora oggi il nomadismo fa parte dell’antropologia mongola e buona parte della popolazione vive di pastorizia e allevamenti di cavalli.
La partitura musicale di James Horner è congeniale al film dando variabilità di note alle diverse tonalità della storia. Annaud ha una regia di livello per l’ambientazione tutta ma la pellicola resta in superficie per alcuni temi e scontri politici con personaggi che girovagano nel deserto delle nature appariscenti. In ogni caso un film che si lascia vedere senza rimpiangere il tempo perso.
Voto: 6,5.
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