La terra dei figli: la recensione del film di Claudio Cupellini

Liberamente ispirato all’omonima graphic novel di Gipi, un raro esempio di cinema nostrano che si colloca a livello temporale dopo una catastrofe già avvenuta, ragionando anzitutto visivamente sui suoi strascichi, su quello che resta, sulle macerie della civilizzazione, da qualche parte nel nord Italia

La terra dei figli
PANORAMICA
Regia (4)
Sceneggiatura (3)
Interpretazioni (4)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3)

La fine della civiltà è arrivata. Non sappiamo come. Un padre (Paolo Pierobon) e suo figlio (Leon de la Vallée), un ragazzino di quattordici anni, sono tra i pochi superstiti: la loro esistenza, su una palafitta in riva a un lago, è ridotta a mera lotta per la sopravvivenza. Non c’è più società, ogni incontro con gli altri uomini è pericoloso. In questo mondo regredito, reso opaco dalla solitudine e dalla violenza, il padre affida a un quaderno i propri pensieri, ma quelle parole per suo figlio sono segni indecifrabili.

Alla morte del padre, il ragazzo decide di intraprendere un viaggio verso l’ignoto alla ricerca di qualcuno che possa svelargli il senso di quelle pagine. Solo così potrà forse scoprire i veri sentimenti del padre e un passato che non conosce. La terra dei figli, liberamente ispirato all’omonima graphic novel di Gipi, che è stata rimodulata e compressa in un unico film, è un raro esempio di cinema post-apocalittico nostrano che si colloca a livello temporale dopo una catastrofe già avvenuta, ragionando anzitutto visivamente sui suoi strascichi, su quello che resta, sulle macerie della civilizzazione, da qualche parte nel nord Italia.

Siamo in un universo rovesciato e distopico, nel quale ogni slancio di fiducia verso il prossimo è lettera morta e il clima di desertificazione è amplificato da una disperazione senza nome. Gli sguardi dei personaggi sono asciutti e svuotati, i corpi degli uomini così simili a paesaggi e animali ormai brutalizzati, ogni entità vivente ricondotta alla carcassa di ciò che fu, con una fotografia, firmata dall’ungherese Gergely Pohárnok, che spazia nelle tonalità più spente del marrone, del verde e del grigio.

L’atmosfera che permea il film è estremamente pacata e dimessa, anche nei momenti più crudi (a fronte di un eccellente lavoro sul sonoro), e lo stile adottato dal regista Claudio Cupellini con i suoi co-sceneggiatori Filippo Gravino e Guido Iuculano è indice di un preciso lavoro di sottrazione, che cerca in una dimensione meditativa da cinema di genere il dispositivo narrativo ideale per restituire l’assenza di empatia e il dialogo interrotto tra le generazioni come sommi mali in grado, in potenza, di spalancare un baratro di cui nemmeno si intravede il fondo. Il passato, con queste permesse, è per forza di cose una terra straniera e di nessuno, un grumo malsano che ha prodotto solo alienazione e scollamento dall’umanità, un orgasmo terremotato che non offre più alcuna lente adeguata per leggere, anche fisicamente e concretamente, i segni del presente. 

La quiete immobilizzata che abita La terra dei figli dall’inizio alla fine fa sì che questa storia non abbia bisogno di deflagrare o essere portata a una temperatura di ebollizione per centrare i suoi bersagli: il cuore del lungometraggio, girato tra il Delta del Po, la laguna di Chioggia e la centrale dismessa di Porto Tolle, è tutto nei dettagli, nell’accarezzamento disorientante di superfici, oggetti e fili d’erba, nello smarrimento offerto da deambulazioni e accensioni di ferocia. In una percezione del mondo tanto oscura quanto acquatica, come se si navigasse sempre a vista e non si potesse che rimanere sulle soglie di un fiume misterioso, e in virtù della quale anche le rare parentesi più liriche sono affogate nel rimpianto. 

La terra dei figli cattura qualcosa – un senso dello spazio e del tempo, la cupezza di un orizzonte dissolto – che il cinema italiano non intercetta spesso, specie sul fronte della trasfigurazione dei luoghi e dei volti e del respiro da young adult dai contorni macabri. Qui invece la negazione dell’infanzia castra anche le speranze dell’adolescenza sotto forma di favolismo dark liberato di ogni eco fantasy, e nella seconda parte del film attori di punta dello star system italiano come Valeria Golino e Valerio Mastandrea, nei ruoli deformanti di una “strega” e di un boia, vengono stravolti anche a livello fisico, esortati a lavorare sulla malinconia vitrea e sulla menomazione per caratterizzare dei comprimari decisivi nell’economia del racconto. 

Foto: Indigo Film, Rai Cinema, Wy Productions

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