Un tagliatore di bambù trova nel germoglio di una pianta una minuscola creatura vestita da principessa, la porta a casa con sé e la piccola si trasforma in una neonata a grandezza naturale, buffa e paffuta. Il tagliabambù e la moglie, senza figli e non più giovani, decidono di crescere la bimba come una figlia. Tempo dopo, l’uomo trova in una canna di bambù dell’oro e successivamente preziosissime stoffe colorate: si convince che la piccola deve essere una creatura divina. La bimba intanto cresce in fretta e fa amicizia con i ragazzi del villaggio, vivendo felice e a stretto contatto con la natura. Ma il tagliatore di bambù decide di trasferirsi in città con la famiglia in un sontuoso palazzo e la piccola viene costretta a crescere come una principessa, educata da un’istitutrice che le insegna le buone maniere, a vestirsi, a scrivere e a suonare. Lontana dalla campagna e dagli amici, soprattutto dall’amato Sutemaru, la fanciulla perde la gioia e la spontaneità quotidiana e come se non bastasse un gruppo di maldestri ma ricchissimi spasimanti si presenta a chiederla in sposa.
Il regista Isao Takahata (suo lo splendido “Una tomba per le lucciole”, 1988), storico collaboratore di Hayao Miyazaki e co-fondatore dello Studio Ghibli, porta sullo schermo un’antichissima fiaba giapponese del X secolo, adattandola perfettamente allo spirito delle produzioni Ghibli. Riprendendo un’idea già sviluppata più di cinquant’anni fa, ma che non si tradusse in film, Takahata realizza un lungometraggio animato di ampio respiro con disegni interamente eseguiti a mano e vicini all’animazione delle origini, dai tratti semplici, come realizzati a carboncino, e dai raffinati colori acquerello.
La storia della principessa splendente, strappata alla natura e costretta ad una vita monotona e ad un ruolo che non desidera, è attualissima: il rito del trucco, gli ingombranti vestiti, l’arte della scrittura sono incombenze a cui la giovane si adatta suo malgrado, ma resta viva in lei una luce interiore che è la sua indipendenza, la sua libertà, ancor più sfavillante e viva di fronte a chi la vorrà in sposa. Sfugge infatti alle lusinghe di uomini ricchi, ma ottusi e tronfi, e anche alla volontà del padre, certo buono ma disposto a darla in sposa in nome del prestigio sociale, ribadendo così la forza del suo modernissimo e controcorrente spirito di donna. Il passato e i sentimenti di gioia vissuti a contatto con la natura sono forse perduti per sempre e la principessa può solo riviverli con nostalgia in sogni e fantasie, che spesso si sovrappongono alla realtà.
Il film sviluppa temi cari a Miyazaki: la principessa splendente, pur non essendo una guerriera, ha un animo forte come Mononoke (“Principessa Mononoke”, 1997) e come lei prova un nobile amore per la natura, allo stesso tempo attraversa una fase di crescita e maturazione a contatto col mondo meschino degli adulti, come la piccola Chihiro de “La città incantata” (2001). Similmente a diversi film di Miyazaki il finale è lieto solo in parte; la principessa ribadisce la sua libertà, ma il suo destino è altrove, in una dimensione ultraterrena e distaccata dal mondo, dimentica di tutte le esperienze vissute fra gli uomini. La differenza tra le due realtà è inconciliabile, ma quell’ultimo struggente sguardo rivolto alla terra, mentre la principessa torna in cielo, nell’universo divino a cui appartiene, rivela quanto l’amore, anche quello terreno che la fanciulla ha provato, sia un sentimento indelebile oltre ogni limite.
Film dai toni delicati e poetici, avrebbe meritato una distribuzione più adeguata e non relegata a soli tre giorni, tra l’altro i primi della settimana.