“Judy” (id., 2019) è il secondo lungometraggio del regista e direttore artistico inglese Rupert Goold.
‘Non vogliono i diversi che vadano al diavolo!’
Judy si sente esclusa e confinata ospite dopo lo show di due suoi grandi fan. Una conoscenza superficiale diventa un oltre il cinema e le loro vite. Anche i due amici sono fuori dalla società del tempo. Un abbandono a se stessi. Una diva all’epilogo e non riconosciuta in patria e due omosessuali aassionati di musica che conoscono (più di altri) l’animo della grande voce di Judy. Una festa il loro incontro. Commozione sincera.
La vita ultima e gli epiloghi amari della diva e cantante Judy Garland. Una tournée londinese nel 1968 per non finire completamente nell’oblio. Una serie di concerti per fare dei soldi, togliere i debiti e mantenere i suoi due figli. Quattro mariti e ne arriverà un altro. Litigi e errori, incontri e scontri, antidepressivi e pasticche, pianti e divismo.
Il film è un avanti e indietro tra la grande star de ‘Il mondo di Oz’ (appena diciassettenne già una vera icona) e altri set con il mondo da mamma in crisi squattrinata e abbandonata da tutti.
L’Europa riconosce la sua grandezza come cantante e la sua voce incantevole sa di tritatutto tra il successo, l’instabilità e il vuoto dentro; ma oramai il suo mondo mangia ogni suo canto. Una vocalità dimenticata tra i teatri di Londra e lontana dalla giusta dimensione a Hollywood. Finisce per rovinarsi da sola circondata da persone poco attente a lei ma a ben altro. Judy si ritrova divorata da se stessa, usata come non mai dalle sue grandi capacità e distrutta da una notorietà che si abbatte sulle sue ansie e i problemi famigliari.
Nel film (adattamento del dramma teatrale ‘End of the Rainbow’) si sente la sua voce, nella grande interpretazione di Renée Zellweger, a metà circa, quasi un affronto per un tal tipo di pellicola. Ma bisogna dire altresì è propria la parte scorbutica, di scontri, di contatti fuori dallo show che il film ha qualcosa da dire e raccontare. Più del resto. E del palco,
Ecco che i momenti umani, l’incontro con i due omosessuali, il suono del pianoforte, la telefonata alla figlia, la solitudine in camerino, le camminate notturne, il toccare il palco senza prove sono la vera essenza del suo raccontarsi o meglio del suo ricordare di essere una donna fragile e una mamma in crisi. La pellicola tende al glamour durante le canzoni e lo show col pubblico: la performance di Renée Zellweger,ì riesce ad eliminare l’eccesso di compiacimento verso una diva che ha bisogno di versare silenzi verso chi ne conosce la bravura.
I vari intermezzi e ricordi della sua giovanissima età da un set all’altro sono una sorsata di illusione per la ragazzina che ‘piccola, non carina, semplice’ ma ha una dote unica nella sua voce e nel canto melodioso che emana con grande vigore.
E l’ascolto di ‘Come Rain or Come Shine’ e ‘Over The Rainbow’ dà il gusto di un ‘biopic’ non troppo intenso e alquanto riverente, corretto ma che non osa oltre al dramma che si consuma. I titoli finali ricordano la sua morte a soli quarantasette anni a Londra.
Renée Zellweger regge benissimo la parte con un’interpretazione di grande effetto (candidata come attrice protagonista ai prossimi Oscar; premiata ai Golden Globe).
Regia: teatrale e diligente, languida e reverente.
Voto: 6+/10 (***) -cinema vitreo-