Joker: la recensione di loland10

“Joker” (id., 2019) è il decimo lungometraggio del regista-sceneggiatore newyorkese Todd Phillips.
Una risata ci seppellirà; Un volto annulla lo schermo; Un mare di immondizia ci coprirà; Un applauso è un colpo in canna; Uno sguardo ci annienterà; Una vita paga della disperazione;Un clown è circo malefico; Uno show per la celebrità. Il piatto odorante di vizioso contrappasso … è pronto.
Strano modo di uscire dalla sala, strano modo per essere coinvolti, strani mondi in Arthur Fleck, strani mondi quelli della pura follia. O meglio la pazzia come confine labile, fragile e tragico tra un esempio e l’esempio. Tra una schiuma di labbra esplosive e un fuoco interiore atroce e troppo violento.
Il regista firma il suo film marchiato di presente e di ieri scontento dell’oggi; arriva ad una pellicola che ‘non è una notte da leoni’ irriverente e sadica, ma una ‘vita da sconquasso ’ con un’arma libera di tutto e da tutto, tragica e inespressa. Ecco che il sangue ne rimarca il simbolo di un luogo simbolo dove l’eroe non c’è e tutti (forse) aspettano. E’ il cinema che ancora deve iniziare.
Un film orribilmente forte e tragicamente (in)comico; il pugno allo stomaco arriva per immagini già viste e che hanno segnato lo schermo (da Kubrick a Scorsese passando per tutti i dintorni) alcuni lustri fa. Ciò che inorridisce è che ti aspetti (dopo una trentina di minuti) quello che avviene. E non può essere altrimenti. Metropolitane veloci, vicoli bui, corridoi al neon, appartamenti sconci e stanze miserevoli: non un spiraglio di lena vita, non un piccolo poro di arguzia positiva, non un filo di aria respirabile. Tutto gronda di sudore inviperito, tra trucco ingrossato e pelli sfinite, in un putiferio di ‘bella-notizia’ per il popolo notturno e vorace che aspetta il male sopra una carcassa di un’auto. Lo skyline non ha la forma dei grattacieli metropolitani ma le onde delle braccia del ‘clown’ e la forma ‘ inospitale’ di uno sguardo che scarnifica il volto pieno di ‘purè’ di rosso. Arthur è il clown, Joker è il vile corpo che fa ondeggiare la colonna vertebrale e risaltare macabramente le costole. Non ci sono
Il ‘De Niro scorsesiano’ (da ‘Re per una notte’ a ‘Cape Fear‘) si annienta e si morde, si compiace e si azzera davanti al gaudente applausometro; non passa il testimone a Joker ma vive il suo alter-ego. Una scommessa perdente (e che forse annulla veramente il molto fatto prima) o meglio una parte di fine carriera che senz’altro aggiunge poco e toglie troppo. D’altronde Scorsese è nella produzione: a scanso di doppi e tripli argomenti.
E ‘La notte del giudizio’ (trilogia del regista James DeMonaco) è dentro il film che sconvolge per alcune scene cruente e ridondanti nell’orrore: compiaciute o no sa di meccanismo già visto. Una pistola si prende e un paio di forbici ci sono sempre: il resto va da se. Solo, un alieno a tutti, come l’amico nano che inaspettatamente si ritrova al centro della scena, con un seti che corre e non rincorre il suo sguardo in fuga.
Il dramma della famiglia che esplode e si annienta. Una madre e il figlio. Ma poi è il figlio di chi… Arthur vuole spazio, vuole farsi notare, vuole la camera per se, da una vita scarnificata ad una clown-azione che cerca un riscatto senza il (vero) sorriso. La presa in giro continua e l’isolamento si trasformano in un circolo vizioso orribile e senza nessuno sconto. Il Joker diventa ‘giustiziere’ in ogni dove senza paura.
Nel film il gioco si trasforma in incubo vero e il riso irriverente e non conosciuto è segnato dal sangue. Tutto questo si dice per quello che si vede. Sentirlo è durissimo. Il pugno allo stomaco rimane forte. Certo è che il vivere male va da se, il vivere meglio si vuole, il vivere macabro meglio non pensarci, il vivere a Gotham City per una festa di grugno sanguigno e di scaraventi violenti come un epilogo di inizio battaglia fa scoppiare le vene e desta il ricordo, condensato di neuroni follia, di un certo cinema poco alimentare, tra Kubrick e Scorsese e ciò che il cinema anni settanta ha generato.
Una (quasi) vita di ordinaria follia tra feroci risate (peregrinanti) e sguaiati resoconti di sangue. Un film dove l’empio si ricongiunge e gli astri sono dalla sua parte, dove ogni destino si ritrova festante con bandiere tetre e sanguinolenti. Un film dove il sorriso finale è solo di sangue, di arcuato dolore e di sfintere oltre ogni dove.
La città è in subbuglio e il soqquadro vivere è solo dentro una pallottola che arriva. Prima il gesto con le dita, poi il gesto copiato, poi la pistola scarica e poi la pistola dove le pallottole si scaricano con un piacere di gusto feroce.
‘Siamo venuti perché abbiamo saputo di tua madre’, ‘Come mi sento….mi sento libero da ogni cosa’. Joker non solo ride in in modo anomalo, ma scompone gli e il suo sguardo con due oculari che ricordano la pazzia vera di un ‘cuculo’ di riferimento e la ‘camera-in-mano’ (‘Shining’) cinematografica che fu di ieri tra corridoi poco illuminati e di un tetro dove non si vedono neanche le porte di ingresso. Jack Nicholson ne fu prigioniero.
Sceneggiatura di traino per piacere dove ogni gesto è costruito i. Modo metodico e dove il ballo di joker diventa uno spot …non facile fa emulare ma possibilmente…si.
Joaquin Phoenix: è magistralmente in parte o il clownesco modo si addice alle sue forme; non vorrei che il ruolo gli si attaccasse per sempre: è un rischio. Ma…si legge di un seguito. Cosa fare? Meglio non dire nulla e ricordare l’attore ne ‘Il gladiatore’ di R. Scott.
Robert De Niro: marchia il suo stile con classe e non certo fa fatica (data la sua grandezza). “Un’ultima cosa…mi puoi presentare come Joker” dice Arthur a Murray, e di risposta “E Joker…sia”. Ecco il passaggio è avvenuto tra l’ironia di uno spettacolo e la vita truce di un folle. Senza freni con un solo colpo. E per compiacere (forse il pubblico in sala cine) mentre non confà (al pubblico dello show che si dilegua in un battibaleno).
Fotografia di Lawrence Sher (collaboratore del regista): acre e sconcia, scarna e aleatoria; fortemente dileguante.
Musica di Hildur I. Guðnadóttir con afflato roboante, metrica da metallo(ro).
Regia: vistosa, referenziale, acuta e triste, vispa e languida.
Film opinabile che non rivedrei volentieri a stretto giro (e forse neanche un po’ dopo) e che traina giudizi di omnia capolavoro (o quasi) ma l’originalità inciampa in più tratti: Joker con J. Phoenix ruba il film a tutti (fagocitando recitazione e sceneggiatura). Si rischia il vintage e l’omnia referenza (comprensiva).
Voto: 7/10 (***½) -cinema disfatto-

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