Joker: la recensione di Jole de Castro

Dimenticatevi per sempre l’alter ego di Batman, l’antieroe dei fumetti e similari, perchè il personaggio disegnato da Todd Philips è completamente diverso. Dietro la sua maschera non c’è ombra di malvagità ma solo voglia di rivalsa. Lui è un giustiziere, non un sadico. Neanche alla fine del film, quando provoca letteralmente un bagno di sangue (poche immagini ma di effetto certo) riusciamo a biasimarlo. Per lui è assoluzione piena. Come da assoluzione piena è questa pellicola così fuori dal coro, che dopo aver trionfato a Venezia, passa l’esame e pieni voti e ci colpisce in pieno, come un pugno nello stomaco. Impossibile restare indifferenti ad un personaggio così carismatico, così unico nel suo genere. Affascinante, irriverente…perfinio elegante. Eh, si perchè sembra assurdo ma Joaquin Phoenix, eterno snobbato dagli oscar, superbo interprete da sempre surclassato, ha aspettato quasi vent’anni, dall’epoca del Gladiatore, per tornare a fare breccia, solo che qui, appare per la prima volta in tutto il suo splendore. Sarà per via di ciò che indossa (non si è mai visto un clown tanto cool), della gestualità (indimenticabile la scena della danza sulla scalinata) o dell’aria stropicciata ma non riuscimo a smettere di guardarlo. Ricorda un po’ Michael Jackson degli ultimi tempi, per via della silhouette ridotta all’osso ma anche un po’ Hannibal Lecter, per via dell’andatura dinoccolata che già di per sè suggerisce il disturbo mentale, oltre a quello sguardo tormentato, che ti scava dentro. Il suo Joker non è affatto un pazzo ma un uomo dilaniato dalla sofferenza, rassegnato a tutto, perchè non ha più niente da perdere. Ed è da questo che nasce l’ironia, quel sorriso amaro e distaccato (che a tratti sostituisce la risata isterica) di chi ha fallito sempre e si prende in giro, per sopravvivere.
E per assurdo, con lui ridiamo anche noi. Ridiamo quando sbatte la testa contro il vetro dell’ospedale o quando il collega nano si ritrova intrappolato in casa sua e non riesce a uscire, dopo che lui ha appena massacrato un uomo nel modo più atroce. Ci vergognamo del fatto di ridere ma neanche tanto. Ed è questo il miracolo del film, di un personaggio che ti entra nelle ossa, a dispetto di tutto. Pericoloso? Forse. Memorabile la scena finale in cui sale sulla macchina e viene osannato dalla folla, un assassino celebrato come un Dio, un uomo da sempre gabbato, deriso, un eterno perdente che tutto a un tratto diventa vincente. Paradossale? Senza dubbio. Diseducativo? Forse. Arthur non uccide per gioco (comincia tutto con un terribile equivoco) ma per necessità, per desiderio di rivalsa. E chi riesce a non gioire quando fa fuori i tre della metro o addirittura la madre degenerata? (quale madre che sia degna di questo nome lascia che il figlio piccolo subisca abusi e si trasformi in un mostro?). Ed è qui che il protagonista da passivo diventa attivo, perchè smette di subire, di accettare la violenza per ribellarsi. La sua rabbia è anche la nostra rabbia, la nostra incapacità di accettare l’orrore di una società senza cuore, che dimentica l’uomo e la compassione, una società basata sul denaro e la legge del più forte, ed è così che la follia diventa lucidità, che un cinecomic diventa cinema d’autore.

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