Joe: la recensione di Mauro Lanari

Opera che setaccia l’universo degli States sudista, quella spazzatura umana soggetto privilegiato di tanto cinema indipendente. “Pure troppo” (cit.). “Ambientazione southern” e ormai è detto tutto. Clima e personaggi poveri, selvaggi, disperati, miseri, melmosi, sconsolati, violenti, sordidi, distruttivi e squallidi nel cuore della provincia rurale profondissima anz’infima, figure solitarie in paesaggi sperduti, silenzi e azioni che dominano sulle parole, atmosfere rarefatte, elementi antropici, animali e vegetali ammorbati da un unico veleno, loser brutali e outsider crudeli, arrugginiti e rugginosi, alla ricerca d’una seconda chance di redenzione nei rapporti sia intergenerazionali (due padri, un figlio e lo spirito etilico) sia intersessuali, storia semplice, canonica, prevedibile, risaputa. “Il regista […] gioca a tinte plumbee su un registro […] così insistito da risultare fasullo” (Alessandra Levantesi Kezich, “La Stampa”). Secondo altri, invece, un “film da ultimi relitti dell’era cowboy intriso di bellezza ed emozione, fascino e lirismo. Straziante”. Su quest’ultimo aggettivo mi trovo d’accordo, però nell’altra accezione del lemma. Ammuffito da provocare allergie e stantìo d’abbioccare. Autori come David Gordon Green e il Jeff Nichols di “Mud” starebbero rivitalizzando il genere o addirittura ricreandolo? Replico con una frase di due millenni fa ben più attuale di “Joe” et similia: “Lascia[te] che i morti seppelliscano i loro morti” (Luca 9, 60).

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