Io, Leonardo: la recensione di loland10

“Io, Leonardo” (2019) è il quarto lungometraggio (storico) del regista messicano Jesus Garces Lambert.
“Ciò che so è molto ma ciò che non so è troppo”.
Dalla bocca di Leonardo il tutto che ha fatto in una frase e la ‘battuta’ del film rimane impressa appena se ne esce. Non storditi ma neanche assuefatti, poco detto non certo il molto che la mente ci ha lasciato.
Fare un film-documento su Leonardo Da Vinci è impresa ardua e quasi impossibile. Molti secoli ci separano dal genio del millennio ma rappresentarlo, gestirlo, immaginarlo e scoprirlo, per l’ennesima ed ennesima volta, dai sui appunti, foglietti, tratti, disegni, schizzi, quadri, frammenti, invenzioni, scritture, arti, misture e conoscenze, pare veramente impossibile. Dare manifestazioni di immagini con volti e parole di un epoca lontana e di un rinascimento da cercare, con fraseggi e fotografie, con colori personali (da arte settima cinematografica) e musiche aggiunte, pare sempre storpiare e deviare l’intelletto sopraffino e sovrannaturale del vinciamo unico e (forse) irripetibile (ancora per moltissimo nel tempo dell’uomo).
L’opera filmica è sempre ristretta da qualsiasi punto la si veda. Immaginare le idee e di conseguenza gli itinerari (di pulsazione e di anima) di un personaggio irripetibile forse ha un suo perché ma trasformarle in modi, movimenti, linguaggi odierni e rappresentazione per chi non ha visto nulla, sfugge ad ogni logica e destino da comprendere.
Il film (distribuzione Lucky Red) con produzione televisiva (Sky con Progetto Immagine) ha dalla sua una voglia di nuovo e una struttura enfatica con racconto fuori campo (la voce è di Francesco Pannofino) che coincide con le fatture labiali di Luca Argentero (nei panni di Leonardo). La scelta del volto dell’attore torinese con i suoi lineamenti già ha un indirizzo ben preciso; i gesti e i modi non propriamente di forza, generano un Leonardo estemporaneo, enigmatico quanto basta con uno sguardo vivo e pieno di effetti adolescenziali. I ricordi e la famiglia divisa, il destino e la sua grandezza corrono insieme all’unisono. Non sempre il linguaggio adottato rende l’idea e arriva fino in fondo. E l’esagerazione in certi frangenti non convincono appieno (le musiche e certi ambienti).
L’operazione appare con cliché moderni (con piacevolezze televisive), nonostante l’ottima fotografia di Daniele Ciprì, che tende l’immagine aurea, volante e evaporante; tutto risalta ma ciò che rende debole il profitto è l’esagerazione postuma nel riveder l’opera con un quadro (in profondo tono) mistificheggiante. Appunto raccontarlo, senza alzare i toni (di parole futili e di note scheggianti).
Infatti nella pellicola i quadri conosciuti da tutti appaiono lì dietro all’improvviso come segno di riconoscimento….tipo oggi si direbbe mi faccio un ‘selfie’. La ‘Gioconda’ e il ‘giocondo’ con un volto sempre giovane, che per tutto il film … nonostante il passare degli anni rimane se stesso senza nessuna ruga. E lo specchiarsi verso la fine è di celebrazione del corpo, ammiccando all’eterna giovinezza del suo fare ‘arte e scienza’ in toto. Ci si aspettava il ‘famoso autoritratto’ (di cui rimane il mistero) che non s’avvede di mostrarsi… dallo specchio non si vide nulla.
Sui tre anni di attesa prima di avere qualche dato sul Cenacolo …il racconto e interessante con persone vive che segnano lo stacco col dipinto murario (dieci per quattro metri) ..una bella attesa. Le musiche alte servono a poco. Meglio un profilo estremamente basso, confidenziale, di calma, di assaporare ciò che la mente del genio…stava creando……come le opere, incompiute…o ancora da iniziare.
Ludovico il Moro (per quel poco che si vede) pare sempre infastidito…da uno scolaretto che non finisce mai di accontentarlo …
Comunque il volto di Luca Argentero è ambiguo nel giusto, è introspettivo nel guado, è scanzonato nel vivere, è arguto nella recita. Certo un Da Vinci qualsiasi non può essere il grande di ogni tempo.
La storia di un genio e la vita di un’anima pensante è difficile da racchiudere in novanta minuti con pochi personaggi dove le ‘comparsate’ de Il Verrocchio a Firenze, di Ludovico il Moro a Milano e della famiglia dispersa sono argomenti da giro per cadenzare la storia. Il fuori onda del racconto pare ingombrante o addirittura poco o troppo poco. Ma il Leonardo è da rappresentare come ne descrisse il Giorgio Vasari (nelle Vite…) se è possibile; la Rai si permise di sfornare un’opera televisiva che rimarrà a lungo (con Phillippe Leroy nel ruolo del genio immenso) nell’anno 1971 (troppi anni per non far meglio).
Una notazione. L’inizio prima dei brevi titoli. Far vedere il piccolo bimbo, dopo la nascita, in acqua dove si vuole dire molto.. ricorda (almeno a chi ne dice) una pubblicità di qualche tempo fa. Ecco che la tv moderna fa il cinema e ne rende omaggio subito…
Fotografia di Daniele Ciprì (come detto) efficace e bombata di colori annebbiati e vistosi.
Musiche infervoranti e alla fine sembrano poco adatte
Regia: uno sforzo stare al passo del ‘grande’; un set in ‘divenire’ con la macchina da presa che sfugge.
Voto: 6½/10 -cinema in piccolo scatto-

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