Il signor diavolo: la recensione di loland10

“Il Signor Diavolo” (2019) è il trentanovesimo lungometraggio del regista bolognese Pupi Avati.
E arrivare alla soglia di un’età non facile che ci si può permettere di tutto o quasi, il nostro ritorna nei posti frequentati nei suoi primi lavori.
Un cinema in linea dritta, poco accattivante e caramelloso, ostinatamente artigianale (o quasi), asciutto, poco incline all’applauso facile. Quasi scomodo, non piacevole subito e quasi mai i dettagli sono inutili come i cosiddetti personaggi minori.
Un cinema, quello avatiano, signorile, educato, distante, rispettoso, intrigante e, alquanto, fastidioso. Non ci si scompone di dividere ma ci si accomoda per unire quello che aspetti e non ti aspetti, il film degli opposti in ognuno e anche nello spettatore lasciandolo tra le righe. Ecco un qualcosa di incompleto
Trama: tratto dal libro omonimo dello stesso regista con sceneggiatura di Pupi, Antonio e Tommaso Avati; un giovane funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia, Furio, viene mandato per sbrogliare un’indagine complicata. Un quattordicenne, Carlo, ha ucciso un ragazzo di nome Emilio affermando di essere ‘diavolo’. In tempi (anni cinquanta) in cui la Dc era al governo una simile osservazione poteva danneggiare il governo degasperiano, con presunti coinvolgimenti di personaggi della Chiesa e vicini: suora, prete, sacrestano, ferventi osservanti e attenti osservatori. Il destino è di ‘insabbiare’ simili idiozie e di non dare credito a incontri del ‘male’: una storia di tempi non successivi, di interrogatori, di immaginazioni, di verità raccontate e di fatti inchiesta. Il regista, intersecando tutti i personaggi, imbroglia le carte a distanza, si arena sulle riprese e si compiace, in minimo, del saluto esterno dei luoghi con i volti segnati nei vestiari appesantiti.

Dire e non dire con un iniziò scoppiettante e da vomito sanguinolento che fa capire il cartellone del film. E poi la musica inizia forte incespicando su una trama che la suspense cerca di farla sua in ogni angolo, nebbia e ruga antica di un ambiente trucido e viscido.
Inizialmente le ‘finestre ridevano’, poi si è ballato, quindi un nascondiglio ritempra l’incubo mentre si avvicina la conoscenza del segno degli inferi. Ecco che il regista sfianca ogni desiderio di démodé e di facile posto modernismo tecnico.
Avati ritorna con un gusto amaro, con segni e didascalie pronte, dirimpettaie già conosciute, luoghi calpestatati e colori che assopiscono il rigurgito della paura. Il buio e i suo doppio. Tempi e politica, chiesa e partiti, santi e diavolo. Un nascondersi tra i visi nuovi e vecchi, di oggi e di ieri, l’indagare è dentro il suo cinema. Chi porta con se ancora il fardello di una ripresa sincera e acre, viva e morta…
Verità da scoprire, verità occulta, verità doppia; democristiani e comunisti, ingestione di regole, soddisfazione di voti e bigottismo funereo; il Veneto e Venezia che disarmano le indagini mentre cresce il Signor Diavolo dentro il clericalismo e il sommerso sotto un altare.
Oculatamente chiuso, ostracismo nel dire, tra suore silenziose, sacrestano chiuso, parroco in cerimonia e una comunione da ricordare dopo oltre venticinque anni; l’ostia consacrata riposta e gettata tra il cibo putrido del maiale. Tutto da sconsacrare e da incendiare, da nascondere e occultare. Uno sparo e un fuoco che ripulisce il tutto.
La vita di ciascuno tra paure e mostri, santi e diavoli, urine e maternità, dentatura da maiale e violenze nascoste, repressioni e sogni svaniti.
Occorre scendere sotto, occorre vedere, la scala è pronta, la scala tirata via. Gli occhi e i denti, le barbe e le statue dei santi tremanti, i colpi di martello rimbombano a morte, le campane oramai ferme e la luce arriva solo dal portone aperto. Sono scappati tutti mentre il pianto di un bambino non ti fa dormire per una notte intera.

La schiera degli attori che hanno seguito il regista è tutta in prima fila. Di ognuno ricordiamo il plastico inorridito e il corpo tra i fantasmi luoghi di Comacchio e del Po. Una rimpatriata tra ‘mali’ e ‘spiriti’ insiti in noi e tra le nebbie di acque e campagne. Dei suoi sa benissimo Avati cosa trarre e di quali indumenti rivestirli. ‘Quei Fantasmi’ lungo il cinema del bolognese si ritrovano per far festa e terrorizzati chiudono per sempre (?) l’altare e la sua catacomba.
Gabriele Lo Giudice (Furio): ha dalla sua lo sguardo sommesso e la virtù di un servo cocciuto; Riccardo Claut (Paolino): discolo e leggero, con la fionda e senza; Filippo Franchini (Carlo Mongiorgi): docile e irriverente, fresco e cupo; Massimo Bonetti (Giudice Malchionda): incisivo e segnato dagli eventi; Lino Capolicchio (Don Zanini): statuario e regale, formale e classico; Gianni Cavina (Sagrestano): è il personaggio del film, vive di se stesso e con modi viscidi segna ogni passaggio; Cesare Cremonini (Giulio Mongiorgi): si nasconde, non si riconosce in un ruolo doppio; Alessandro Haber (padre Amedeo): per esorcizzare una carriera e gli incontri con Avati; Andrea Roncato (Dott. Rubei): piccola parte per recitare senza accorgersene; Chiara Caselli (Clara): intensa e viva tra anime morte.
Fotografia di Cesare Bastelli (all’ottava collaborazione col regista): intensa e cupa, vitrea e fosca, scarna e ombrosa. Un lavoro efficace per disegnare gli spazi e i volti
Musica di Amedeo Tommasi: disarmonica e tonica, spettrale e oleosa, schiumata e scornata.
Regia: compendio di set, attori e dettagli che da decenni vivono insieme; una ripresa lontana, parsimoniosa e ricca, spenta e con spirito jazz.
Voto: 7/10 (***½) -riconoscere i meriti di un cinema in disuso-.

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