Il settimo figlio: la recensione di Mauro Lanari

“I personaggi, le loro dinamiche e le leggende che li circondano sono solo abbozzati e qualsiasi sviluppo della trama è trattato in maniera grossolana e frettolosa, per cui non ci s’appassiona veramente ai protagonisti e soprattutto non si capisce in fondo il senso di quello che fanno e del perché lo fanno. Soprattutto non c’è stupore, non c’è magia, non c’è epica.” “La trama corre spedita, i personaggi non hanno tempo per svilupparsi degnamente agl’occhi del pubblico, lo script è costellato da buchi spaventosi […] in quello che potremmo quasi definire un mash-up fantasy tra Game of Thrones, Eragon, Fantaghirò e Desideria e l’anello del drago.” “Ci sono molti spunti lasciati per strada (le madri dei due amanti sono personaggi molto più complessi di quel che non sembri inizialmente ma lo possiamo solo intuire) e il buono d’avere una grande serie di libri dietro di sé, ovvero poter far intuire un mondo più grande d’un film solo che possa mettere l’acquolina in bocca e ampli la portata della storia, è totalmente perduto.” Siamo all’apoteosi delle buffonate per quello che considero il miglior fantasy da me visto. 13 libri riassunti in 102 minuti: si può? No, si deve, se uno ne è capace. Drogati dalla serializzazione? Per quella esistono l’ignobili fiction tv sopr’elencate. Qui invece si va d’archetipi e allora i princìpi basilari sono tre o quattro: 1) compressione algoritmica, per cui la sintesi serrata diventa pregio e non difetto; 2) allusività/ellitticità/evocatività, proprio in quanto i c.d. “buchi di script” sono totalmente riempibili dalle competenze narrative dello spettatore non ancora impoltronito. Pure in questo caso, se viceversa si cerca l’esplicita pedante onnipresente guida esplicativa, si rinvia alle fiction di cui sopra; 3) finale senza sequel (si spera) bensì aperto, irrisolto, equivoco con la miriade d’argomenti lasciati in sospeso da Bodrov così da imporre, meglio tardi che mai, un film non a tesi m’ambiguo quanto la vita stessa; 4) un blockbuster dove i nomi di cartello, le due megastar Bridges & Moore, hanno alla buon’ora minor consistenza di tutte le sconosciute (o quasi) figure di contorno, per un’opera davvero corale senz’essere il solito “all-star cast”. Sorprendente, magico, epico.

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