Il Sale della Terra: la recensione di Giampaolo Gombi

Wim Wenders ha pensato che la vita di Sebastião Salgado, grande fotografo brasiliano contemporaneo, meritasse di essere raccontata in un film. Così è nato il lungometraggio “Il sale della terra”, composto di tante parti quanti sono stati i periodi artistici (per usare un termine legato alla pittura) del fotografo, ognuno di questi costituito da molti dei suoi straordinari scatti commentati a volte da Salgado stesso e da Wenders, e da filmati posti a documentare il rapporto del fotografo col mondo che intendeva a volta a volta ritrarre e testimoniare. Salgado, viaggiatore instancabile, fedele a una sua prima rivelazione (la visita a una miniera d’oro nel suo paese, un formicaio umano) ha documentato per lungo tempo la sofferta presenza dell’uomo nel mondo, fatta di miseria, sopraffazione, indifferenza. Arrivando a dire: «Siamo animali molto feroci, noi umani…», in curiosa contraddizione, mi sembra, con il titolo voluto da Wenders, secondo cui “Il sale della terra” sarebbe proprio costituito dall’umanità. O forse l’umanità è proprio come il sale che sparso sul terreno lo rende arido?
Cosicché in tempi recenti lo sguardo di Salgado si è appuntato maggiormente sulle bellezze del pianeta, ancora largamente intatte, nonostante il “sale” sparso dall’uomo su molte parti di esso. Non uno sguardo solamente contemplativo, poiché apprendiamo che il fotografo, aiutato dalla moglie, si è impegnato a riportare all’antica fecondità un territorio arido del suo paese, mettendo a dimora piante e avviando coltivazioni. Ne viene la testimonianza non solo di un percorso artistico ma di una presa di coscienza: dopo la discesa agli inferi, l’uomo Salgado, vuole credere in una salvezza, in un riscatto, cominciando da ciò che ogni singolo può fare, anche un atto piccolo e circoscritto, purché fortemente voluto.

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