“Il Primo Re” (2019) è il quarto lungometraggio del regista-sceneggiatore-produttore romano Matteo Rovere.
‘Un Dio che può essere compreso non è un Dio’
(frase incipit dello scrittore drammaturgo britannico William Somerset Maugham).
Ecco che una frase minima ma fondamentale che appare in basso sullo schermo, arcaicamente, prefigura l’indice di un paganesimo religioso e di una forza interiore di un uomo prossimo al comando.
Ecco che il Re va avanti senza volerlo con il vigore del fuoco come un Dio e la bellezza cruda di una veggente che è itinerante con il destino che apre una storia che nessuno conosce.
Il cinema nel mito di un racconto di fratelli e della dinastia, da dei e destini, da leggende e da Enea, da Alba Longa alla città al di là del Tevere.
Romolo e Remo sono catturati dalle genti di Alba, riescono a fuggire innescando una rivolta, iniziano un percorso tra terre e boschi dove Remo conquista tutti e vuole sfidare le forze sopra di lui. Una vestale con il suo fuoco ricorda il volere degli dei e il destino di ciascuno. Il duello finale e il confine dove sorgerà la nuova città. Siamo nel 753 a. C.
Cinema di respiro, cinema di stomaco, cinema di ambientazione tra mito e storia, tra vigore linguistico e corpi sporchi, carne e sangue. La tragedia infiammata di una nascita, gli eventi primitivi di un’epopea nascosta e misteriosa.
In un mondo sconosciuto e senza segni di gloria, in una campagna spenta e boschi vergini, tra torrenti e dirupi e un Tevere da conoscere il film dipana una storia immaginifica nel reale tra i sogni violenti di molti e la rudezza viva dei due fratelli Romolo e Remo.
Un cinema ampio che spaventa per la vigoria fisico e la bramosia di non assecondare con tutti, innanzitutto per il linguaggio arcaico e poco comprensibile, quel proto-latino con sottotitoli e un seguire i dialoghi asciutti e poco coprenti l’intero film.
Sensazioni viscerali con crudeltà visive nette, poco dato al non visto e una rarefazione della luce, quasi sempre dall’alto tra le boscaglie e poca avvenente nelle aree aperte. Tutto esterni e chiuso, scomposto e incivile. Una fotografia plumbea, oscurante, polverosa, rognosa e sanguigna. Una nebbia continua e un cielo, quando si vede, chiuso, tetro e pieno di livori, umidità penetrante e pettorali in ansia tra piogge vistose e fanghi in risalto.
Ecco tutto si può dire ma che non sia una pellicola ferma e basculante: il regista ci da dentro come meglio ti aspetti. Un film di stomaco, con poca aria fritta, tra un Alejandro G. Inarritu (‘Revenant‘) e un Mel Gibson (‘Apocalypto’), volendo fare dei paragoni. Certo la teatralità è al massimo e la vigoria non leccata pare ed è il punto di partenza. Nessun compiacimento di abbellimento, nessun tono di aggiustamento e, soprattutto, nessun trucco sui volti, capelli e finzioni narrative.
Lo scontro è vivido, sprezzante, astioso, sporco, crudele, mai nascosto e poco incline alla retorica.
Un film che già dal suo linguaggio puro e non comprensibile ad oggi (chi sa vederli senza nessun sottotipo che effetto farebbe allo spettatore appassionato di cinema e a quello comune….) chiosa il succo delle viscere come suprema realtà tra un fuoco che non si deve spegnere e un amore fraterno nato dalla spada e dal suo sangue.
Il riferimento arcaico e mitologico va di pari passo ad un confronto Romolo e Remo con Caino e Abele. L’uomo riesce ad essere vivo e forte, re e grande quando uccide verrebbe da dire. L’epilogo della traccia del confine e del duello furente nella battaglia di una nuova città è una metafora che va oltre il racconto stesso e la sua storia vera.
E i titoli di coda con musica ansiosamente forzata e condensata nelle epiteto narrativo ingrandisce il mito nelle successioni avanzate di una città che doveva sorgere al di là del fiume (il Tevere).
Colonna sonora (di Andrea Farri), appunto, di grande effetto, scandita, estroversa, che sconquassa oltre il non visto. Un qualcosa che incide ancor di più il dito nella piaga della lotta.
Fotografia (di Daniele Ciprì) fangosa, radente, imbrunita, rozza è fortemente appiccicosa: il quadro in movimento in ogni set ricostruito; una bellezza dirompente al contrario. Un autunno aggrovigliato di grigi e di dee oscure, una melma scorrevole tra acque e carni addomesticate. Un sconquasso di colori s-laccati.
Intenso schermo e scanditi tempi camuffati da antistorici; Lividi e sangue, bastoni e spade, frecce e cavalli, il ‘rebot’ anti-litteram della guerra corpo a corpo; Prima vigoria fisicità e prima statuaria Kubrickiana (‘Spartacus’); Resoconto vile e senza mezzi termini a soqquadro, Inverecondo film per un cinema non addormentato nei facili meandri; Mostri facciali che recitano senza guardarci; Omericamente un viaggio senza fissa dimora, ma da costruire; Romolo e Remo fratelli di fiato e di violenza, fratelli che arrivano oltre un sogno; E senza dire pare di aver visto una pellicola che ancora sul tempo da rimescolare.
Plutarco e la storia di Roma: dal biografo i racconti di una città e i suoi fasti; titoli di coda alla data di inizio e l’espansione dell’Impero Romano.
Cast di impatto corporeo e esposto a tutto, mascherati da fanghi e trucidi, stanchi e impopolari.
Alessio Lapice (Romolo) in crescendo per una parte finale di grande efficacia; Alessandro Borghi (Remo) riesce a esserci con coraggio e forza mascherando la bravura sotto il fango e la recitazione. Tania Garribba (Satnei-Vestale): di rilievo il suo sguardo e le sue misure verso i due fratelli, riesce bene a ritagliarsi la parte.
Regia (e produzione) di Matteo Rovere mescolante, tremante, focosa e arditamente in prima linea. Che il gusto di un certo arieggiare e pensare in grande non abbassi il guado e superi il confine.
Voto: 7½ (***½).