Il primo Re

Il kolossal epico, sanguinario e ultra-violento di Matteo Rovere, con protagonista Alessandro Borghi

Il primo Re
PANORAMICA
Regia (4.5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (3.5)
Fotografia (4)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3)

Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi), travolti dall’esondazione del Tevere, vengono fatti prigionieri ad Alba Longa e costretti a duellare nel fango e nella melma. Insieme riescono a capeggiare una ribellione, ma il loro sodalizio e l’armonia che li lega non sono destinati a durare. I due fratelli si ritroveranno infatti a sfidare il volere implacabile del destino, perché solo uno dei due può sopravvivere all’altro. Sul loro sangue nascerà Roma, il più grande impero di tutti i tempi, e il loro nome rimarrà scolpito nella leggenda.

L’ambizione sconfinata de Il primo Re di Matteo Rovere, insieme alla coraggiosissima sfida produttiva che il regista si è sobbarcato, segnano un importante tappa per il cinema italiano di genere, per un rinnovamento della nostra industria a lungo invocato ma quasi sempre rimandato. Un film con questo taglio, mitologico e violento, vigoroso e brutale ma non per questo estraneo a un’evidente vocazione riflessiva e filosofica, dimostra non solo che si può fare, ma anche che i margini per osare, al cospetto di certe imprese, sono ampi e percorribili.

All’interno de Il primo Re si entra gradualmente, coi piedi di piombo, quasi con timore reverenziale. All’inizio c’è il sospetto della freddezza e della glacialità, ma pian piano il quadro acquista compiutezza e il senso dell’operazione si dischiude. Il controllo, fin dalle prime sequenze, è massimo, e la lingua in cui parlano i personaggi, il proto-latino, amplifica una sensazione di ritualità arcaica, di sospensione dell’incredulità. Rovere, in tal senso, si fa scudo del furore filologico che Mel Gibson ha legato al suo nome, con La passione di Cristo e Apocalypto, ma non ne replica il compiacimento brutale sul piano grafico, lavorando piuttosto su una violenza secca e sorda, cruda e legittimata.

La confezione, nelle sue punte da fantasy europeo, potrebbe far pensare a Valhalla Rising di Refn, ma Rovere tiene a bada le implicazioni visionarie del mito di Romolo e Remo per concentrarsi su un aggiornamento del peplum ai bisogni e all’estetica contemporanea, esportabile in chiave internazionale e pronto a giocare al rialzo. Si lavora su una dimensione da kolossal, epica e sanguinaria, in cui a farla da padrone sono il combattimento barbaro, il corpo a corpo, la sporcizia di una fisicità respingente. C’è un’idea tattile e disperata di concretezza, che non scende mai a compromessi, nemmeno nella luce naturale di Daniele Ciprì.

La sorte dei due celebri fratelli non è infatti scritta nelle stelle, ma nelle viscere di entrambi e Il primo Re non a caso risale alle interiora del mito di fondazione, lo seziona e lo scompone chirurgicamente. Col passare dei minuti tradisce anche la propria vocazione autoriale, affiancata a quella trucida in maniera tutto sommato organica, con una frizione stimolante tra questi due poli. Guardando a un passato lontanissimo, ma al contempo archetipico, ci si interroga sul potere aggregativo ma anche cannibale di ogni famiglia e comunità che si rispetti, col timore degli Dei a fare da collante, da benedizione e insieme da dannazione.

Il vero primo re del titolo, dopotutto, non è il Romolo di Alessio Lapice ma il Remo di Alessandro Borghi, al quale l’attore presta il meglio della sua mimica sofferta e spiritata, senza per fortuna indulgere nel celebrity show di dubbio gusto alla The Revenant. È il fratello predatore che, in virtù della sua natura violenta, ha modo di confrontarsi in maniera frontale e a mani nude con le insegne e con le conseguenze del potere: Remo idealizza il fuoco (un elemento ricorrente a livello visivo, sul quale si insiste molto), specchia in esso il proprio volto ammantato di connotati divini, si inebria di una hybris che lo condannerà.

Sogna di sostituirsi a Dio, ma non potrà sottrarsi, nemmeno lui, dallo sperimentarne il silenzio. Tutti aspetti che danno a Il primo Re il sapore di una dissertazione metafisica sulla fragilità dell’autorità e dei suoi vessilli, delle ideologie e dei loro abbagli, capace di attraversare gli elementi naturali che mette in scena, e i simboli primigeni ad essi legati, in maniera estremamente livida, con la forza silente di un rantolo animalesco.

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