Il corriere – The Mule: la recensione di loland10

“The Mule. Il Corriere” (The Mule, 2018) è il trentottesimo lungometraggio del regista-attore-produttore di San Francisco Clint Eastwood.
Scorrere i miti, attraversare i sentieri, percorrere i visi, sbilanciare i vuoti, contare i tempi, radersi male, specchiare gli asfalti, tracimare gli schermi e silenziare ogni radio musicante. La bocca contorce le parole e il corpo barcollante si avvicina ai nostri mondi immaginifici.
Il quasi novantenne Clint sfida se stesso, il suo mito, la sua carriera, il suo se stesso e la forma registica. Il suo tratto e il suo testamento di immagini e di icona a se stesso. Dopo anni di non più davanti alla macchina da presa, così aveva manifestato e quasi giurato, ecco che il vecchio testardo, virtuoso e sagace e non domo attore si schiude un’altra volta ( sarà l’ultima…come l’altro grande vecchio Robert Redford….seppure su sponde diverse) per un personaggio
La storia è tratta da un fatto vero (il veterano Leo Sharp che negli anni ottanta divenne corriere della droga verso Sinaloa); Earl Stone è un vecchio oramai privo di stimoli alcuno, coltiva orchidee ma la sua impresa va in fallimento; le vendite vanno a picco e i mezzi digitali moderni lo rendono disoccupato. L’età c’è ma la voglia pure e accetta di diventare ‘corriere’ della droga di un ‘capo’ messicano. I viaggi diventano tanti, come le quantità da trasportare e il suo stato di ‘insospettabile’ rendono il lavoro molto fruttuoso per pagare debiti, riaprire balere, conquistare amici e, forse, avvicinare la sua famiglia.
Il problema è la famiglia, il tempo, gli affetti e non certo altro. Resta poco del ’giorno’.
Trumpiano inverso o repubblicano (s)docet: mentire e saggiare il pubblico; con il ‘cavaliere pallido’ i passi oramai diventano flebili e le risposte secche e meritorie.
Hombre Mexico e hombre (muchacho) quando il guadagno facile sc(hi)accia il destino e le corse non spaventano l’angoscia e ogni borsone pieno di chilogrammi.
Escobar droga e t-pack, musica da canticchiare e Ford da cambiare, uno stop per assaporare carne di maiale e sbilenchi modi di dialogare.
Mentore e jazz-folk-ato, mesto e imbarazzato, vile e ciglione. Il Clint che non vuoi si adombra nella sua goffaggine non tanto di postura ma di servizio alla mesta verità di un’America girata in lungo e in largo….41 stati….tutto o quasi conosce il vecchio, di glorie andate e di allori mai ricevuti (‘andare a spasso’).
Umore basso, mestizia vera e ricordi sbiaditi come la famiglia persa e una figlia che vuole sposarsi. Una vita lunga che è arrivata senza un tempo di misura. Quello che non si può toccare.
Lineamenti scavati, corpo inchinato, braccia penzolanti e odori oramai passati. I balli con giovani ragazze paiono una presa in giro per una notte impossibile e un fisico spettrale.
Elegante quando serve, sbadato il giusto, rimbambito nel gioco, figlio di (quando glielo disse sul finale…), spento e mortuario, vivo e malinconico. Postura di ‘un uomo tranquillo’.
‘Internet che serve…’. Ma gli anni passano e si arriva ad un mondo dove l’antico modo finisce e non vendi neanche il pane senza uno ‘straccio di digitale’. E i fiori non sanno più di essere coltivati.
‘Voi altri’, voi che non conoscete, voi che siete persi, voi sempre attaccati al telefono. Intanto il vecchio gira sempre facendo soldi in modo molto losco.
‘È bello aiutare dei negri’ (il rimbrotto per non dire ‘neri’ non vale per il vecchio campione) per un cambio di un pneumatico. E internet non va, non c’è campo. ‘Solo quelli sapete adoperare’ e chiamare il soccorso è un problema. Adesso cosa fai? Basta poco di esperienza e senza modernismo.
‘Tutto ho comprato ma il tempo non si può comprare’. E sì il tempo è andato e in un respiro ti manca poco mentre i novanta sono alle porte. E chi si addomestica è la propria sconfitta. ‘Sono stato un cattivo padre, un cattivo marito,…’ chi sa quant’altro. Forse un ‘cattivo regista’ e anche un ‘cattivo attore’. Basta fermarsi per ritrovare la vera scena.
‘La scena della morte’ soporifera e altisonante risuona e rimbomba in modo alterno dalla bara lucida e forse ancora in foga di ‘Gran Torino’. La vita riemerge per un funerale quello della moglie. Che aspetta e non ascolta neanche le stupidaggini del vecchio Earl.
Ecco che il ‘testamento onirico’, servile. al cinema, alla sua vita, viene profuso, non sempre in modo lineare e arcaico, in quest’ultima opera, ma ciò che conta, veramente, è il passaggio del testimone verso il pubblico (l’altrui di cui non ha avuto tempo) per parlargli, dargli una mano e rivedere la voce di una prigione (come sono lontani i tempi di ‘fughe e Alcatraz’) dove poter coltivare dei fiori che durano poco e sognano un giorno rimasto.
Seppur senza l’entusiasmo di livello eccelso (da ‘Un mondo perfetto’ a ‘Gran Torino” , rimane una prova che a posteriore è il percorso d’arrivo del quasi novantenne attore-regista. Un arrivi di colpevolezza e di poco amore patrio.
È il sentore dell’agente DEA Colin Bates (l’attore, Bradley Cooper, che arresta, che vuole fare carriera, che va di pari passo, complementare a Chris di ‘American Sniper’ -2014- dello stesso regista). Quando il volto tumefatto, sporco, rigato di sangue incontra il ‘giovane aitante’ poliziotto….viene fuori la domanda (affermazione): ‘Tu?!’, ‘Si io…’. Come un gioco doppio.
La domanda risposta va oltre al loro incontro precedente, alle relazioni familiari, al mondo vile e alle strade reali e immaginifiche di un regista che trova l’attore….e l’attore che ritrova il suo regista. Tu ancora qui…ma non dovevi fermarti (ancora un altro? Avrebbe potuto chiedergli fuori onda).
Fare il Corriere per fare qualche chilometro in più dopo le migliaia e centinaia di migliaia di strade (pro)fuse e autostrade girate (in jet-set). Un Clint che recita con parsimonia accattivante, ricorda se stesso….: dà il massimo con il minimo o così sornione, stanco e provato da essere lì per caso. Un ‘mito’ che non spinge molto ma che buca lo schermo appena la sua forma e la sua ombra si avvicina. Non è parvenza ma classe innata. E più di qualcuno deve ringraziare.
“Un mondo perfetto” (1993), “Million Dollar Baby” (2004) e “Gran Torino” (2008) restano superiori (e capolavori), ma “The Mule” è il sottotitolo (‘la lode al dolore’) per coltivare fiori senza nessun disturbo. L’inquadratura vira verso l’alto come per un commiato leggero e irriverente. Una consapevolezza di cinema difficile da ‘degustare’ ma solo da ‘vivere’. Per un fiore.
Asciutto e semplice, funereo e ironico, sincronico e anacronistico, arioso e musicale, antiarrogante e s-tracotante, da radio e da viaggio. Il cinema (vita) è eccitante per Clint. Ecco che il biglietto vale per i modi parsimoniosi di un vecchio che pare fuori di testa (un vecchio ‘coglione’…ma non uno qualsiasi).
Bladey Cooper (Clin Beats) si sente a disagio (di fronte) ma ha la forza di non perdersi dentro il film.
Laurence Fishburne (agente Dea), volto notissimo e capace, come sempre, di farsi ricordare.
Regia di soppianto, acida, viva, silenziosa e cantata dalle sue labbra.
Voto: 8/10 (****)
(questi di numeri non avrebbe bisogno, chi può girare così senza accorgersene e fa dei film).

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