Immaginate un mondo ricco di possibilità e di personaggi. Immaginate un mondo dove reale e surreale non esistono, dove il principio fondamentale è la catarsi. Un mondo ricco. Un mondo povero. Un mondo bello, brutto, esagerato…un mondo unico!
Holy Motors è questo: un universo catartico dove tutto è miscelato perfettamente, unico nel suo genere o meglio unico nei vari generi, perché è più di un film: è un’opera d’arte.
Leos Carax, regista di Rosso Sangue e Gli Amanti del Pont-Neuf, guida con audacia lo spettatore attraverso questa opera d’arte, mai spiegandone il significato reale, ma lasciando all’occhio di chi guarda il compito di coglierne quello intrinseco. Difficile, in tutta onestà, cercare di spiegare il complesso Holy Motors, perché è vano dare un senso ad un qualcosa che un senso compiuto non ce l’ha. Come quando si cerca di dibattere su di un dipinto, le parole perdono significato se si cerca di dibattere su Holy Motors. Le uniche possibilità per “trattare” di questo film si riscontrano nella soggettività di chi ha avuto il piacere di vederlo e di ammirare l’estro creativo/distruttivo di Carax e la/le performance eccezionali di un Danis Lavant come mai si era visto prima, il tutto inserito in un contesto cupamente opulento di una Parigi al contempo metropolitana e barocca.
Il film appare come un grande omaggio al cinema, inteso nella sua essenza, e al ruolo dell’attore, inteso nella sua generalità. Un omaggio che trasmette tutto l’immenso amore che Carax prova nei confronti della settima arte, quasi anche fosse una sorta di epitaffio ad un cinema ormai “antico”, morto, che ha abbandonato la purezza della pellicola donando la sua anima al digitale. Un cliché romantico che vuole in qualche modo far riflettere sul cambiamento avvenuto negli ultimi anni nel mondo cinematografico, ma in modo sottile e anche un po’ contorto, tirando in ballo eterei produttori che tutto osservano e tutto controllano, i meccanismi sacri del titolo (su cui tornerò alla fine) e, ultimo ma non ultimo, il ruolo dell’attore.
Infatti, il protagonista del film, Oscar (non credo il nome sia scelto a caso), è un attore ormai giunto a fine carriera, che a bordo di una lussuosa limousine bianca fa il suo consueto giro di appuntamenti per le strade di Parigi. Sembrerebbe tutto nella norma, se non fosse che in realtà questi appuntamenti sono delle vere e proprie scene a misura di attore, sempre in ruoli diversi e in situazioni diverse. Il mondo di cui si parlava ad inizio recensione esiste simultaneamente ed in modi differenti. Esiste in quanto pensato nella mente di Oscar e all’interno della limousine, che si potrebbe definire lo spazio creativo della scena e del personaggio che si va ad interpretare, ed esiste ovviamente nel momento stesso in cui Oscar mette un piede fuori della stessa limousine, in quanto ora realmente creato. Ogni volta un personaggio diverso, ma sempre lo stesso. Ogni volta un mondo diverso, ma sempre lo stesso. Tutto cambia e resta immutato, ma immerso in tinte oniriche e surreali, passando da un banchiere di successo che vive in una poderosa villa ad un mostro che vive nelle fogne di Parigi e che, dopo aver mozzato due dita con un morso ad una fotografa, rapisce la modella di turno (una tacita Eva Mendes) perché sublime e contrastante con la sua essenza. Un’odissea, ma senza meta. “L’Itaca” non c’è, perché ciò che conta è solo “la purezza del gesto”, come spiega Oscar. Si fa quel che si fa per l’atto in sé, la bellezza che si può trasmettere tramite esso e l’estasi creativa che si può raggiungere con esso. Tutto il resto è di futile utilità in confronto alla pura recitazione.
Danis Lavant interpreta volta per volta ogni sua incarnazione in modo sublime e profondo, cucendosi in pratica il film addosso, mettendosi letteralmente anche a nudo per esso e incantando davvero chi guarda. La potenza della recitazione e la purezza del gesto vengono descritti tramite Oscar e messi in pratica da Lavant.
I meccanismi sacri che spingono l’intero universo cinematografico sono qui rappresentati dalle limousine. Meccanismi che si, muovono l’intero mondo nel quale vive l’attore, ma che in pratica sono anche al loro servizio. Meccanismi che rimpiangono anch’essi i tempi passati e criticano l’assuefazione del pubblico al cinema moderno e al digitale, come mostra molto bene la scena d’apertura del film.
Holy Motors, se vogliamo, è accostabile in qualche modo alle pellicole di Lynch: contemporaneo e nostalgico, ma con una carica artistica unica. E come tutte le opere d’arte, Holy Motors richiede solo una cosa per essere visto: fede. Tanta fede.
Voto: 8.5/10
Luca Ceccotti
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