Green Book: la recensione di loland10

“Green Book” (id., 2018) è il secondo lungometraggio del regista della Pennsylvania Peter Farrelly (tredicesimo comprendendo le pellicole dei due fratelli Peter e Bobby).
“Il mondo è fatto di molta gente che ha paura di fare il primo passo”.
Il primo passo non facile per un bianco Italo americano che puzza di pollo fritto e di cibo in tutte le salse. Un autista prestato dal Bronx, scurrile, volgarotto, becero, poco remissivo e alquanto manesco. Un uomo che non le manda a dire e che risolve i casi in modo sbrigativo e fisico. Invece un dottore o meglio un musicista di classe, nero, tranquillo, pacato, poco fuori posto che sente il bisogno di un aiuto nella routine di concerti nel profondo sud degli States.
Una coppia sui generis che si forma per caso, non si conosce per caso, armonizza per caso, si accanisce per caso e si sorprende conoscendosi per minuzie e incontri casuali. Un bar, un pranzo, un fast food, una colazione, una pietra preziosa, una frittura, una fermata per urinare, un campo di operai neri, un bagno per incontri, una sbronza, un corpo nudo, un albergo da cercare e un libro.summa sui posti più graditi.
Siamo nel 1962 quando negli Stati Uniti vigeva una legge severa di accantonamento degli uomini di colore è la voce della libertà pareva lontana. Martin Luther King è lì alle porte, ma il circondario dei paesi americani non ha lo stesso sguardo sugli uomini di colore.
Tony Lip e Don Shirley si conoscono dai silenzi e da voci interrotte, dalle movenze e dai linguaggi opposti, dalla goffaggine e dalla signorilità, dai modi grevi e leggeri, dalla mani unte e dai tasti di un pianoforte. Ma non il solito pianoforte, impolverato e abbandonato, l’unico adatto alle dita suggestive del ‘dottore’. Anche se è l’unico da prendere in tutto lo stato della ‘Louisiana’.
Da una storia vera; il 1962 è l’anno della tournèe per Don Shirley negli Stati del Sud, dove tutto vogliono acclamarlo e dove il colore della pelle compromette ogni suo movimento e ogni scelta per dormire in un hotel dove può essere ospitato (ecco il ‘green book’ e la lista dei posti consoni e adatti alla sua ‘razza’). Ogni fuoriuscita può procurare danni e pugni, stop e carcere. Una telefonata con il senatore (‘Bob Kennedy’) mette le cose a posto in una serata in cella. E i tre poliziotti (soprattutto il tenace capo) non si aspettano minimamente dall’altra parte la voce dell’avvocato in prima fila per il musicista di colore e il suo amico ‘italiano’.
Alcuni hanno citato il film ‘A spasso con Daisy’ (1989) con la coppia Morgan Freeman – Jessica Tandy e in tale film i volti sono invertiti. Lì con grazia e un aplomb rituale, qui con una verve e uno spirito da commedia che scuce e risucchia la società ‘americana’ degli anni ‘colorati’ mentre i problemi razziali sono in primo piano con avvenimenti di grande portata.
Un ‘macchietta’ demodé e un paesaggio espansivo, un fervore di musiche e un gioco avvenente vanno contro e stridono col mondo sommerso degli uomini ‘negri’ (un termine quasi abitudinario nel film) e di ciò che significa essere ‘liberi’.
Passare dalle vessazioni, mentre Don Shirley è in carcere, allo stop grato di un poliziotto, in mezzo alla bufera di neve, (mentre i due ‘amici’ sono prossimi a New York) per un pneumatico a terra è il segno del destino (o complemento uno dell’altro avvenimento) di qualcosa di nuovo. “Buon Natale…” dice il poliziotto a Don e Tony. Un ottimismo innato e un gioco-forza del ‘sogno americano’ (del film e degli avvenimenti prossimi). Il Natale che non t’aspetti, dietro un porta, un ospite che aiuta a fare compagnia e amico della famiglia ‘Vallelonga’. E poi certe lettere Dolores, la moglie di Tony, non può dimenticarle.
Grazia che rende un incontro impossibile in un’America razzista tra due volti opposti che di impeto scacciano la vergogna di un’appartenenza utilitaristica. Qui di questi c’è ben poco, anzi l’ombra incombente di una zavorra che ancora oggi ci portiamo addosso. Verrebbe da dire….ma dove sono cambiate le cose…
Riverenza della musica quanto irriverente l’autista chiacchierone e focoso Tony. Estetica ‘happy’ o glamour ‘visionario’, espediente godibile o hot-dog da assaporare?! Ecco che una telefonata arriva inaspettata per partire (otto settimane) senza non dire a Dolores. Neve e freddo, ritorno a casa per un musicista vero e un ‘buttafuori’ convertito. Bob Kennedy e l’amicizia che non t’aspetti, per mangiare insieme a tutti e andare al bagno come si conviene. Omaggi e silenzi, orme e sud, applausi e paure, tristezze e follie. Oniricamente baldanzoso, ostentatamente fatuo, ossimori di incontri senza veri sogni. Kroma(n)tico e commedia, sconquasso e ilare, superficiale e volano. Un film con sottostrati non casuali.
Ambientazione e scenografie la fanno da padrone e sono da urlo, la vera carta vincente del film. Senza esagerare ogni spazio e immagine nasconde il sotto a più riprese; ogni minimo gesto e spazio, come figura e insegna, lasciano vivo il ricordo di un sogno e la bellezza innata di un paese mai visto, il trauma n ‘show’ della coppia che gira e rigira con loro quotidiane situazioni. Di corpo e di mente, ma soprattutto di stomaco, in tutti i sensi, si muovono le sequenze e i dibattiti più o meno privi di significato, mentre i due corrono, guardano, vedono la situazione all’improvviso. Una natura viva e una fotografia variopinta ossigena e si immerge nel loro percorso senza saper nulla di loro.
Le voci in doppiaggio ricalcano cliché non voluti e vite addomesticate di un Paese (da conoscere).
Viggo Mortensen (Tony Lip) ingrassato e sbalestrato pare lì, senza sapere nulla, ma esce dal film con un plauso di vigoria affettiva e di coraggio verso la famiglia (e non solo).
Mahershala Ali (Don Shirley) riesce a ritagliarsi un personaggio vivo e significativo, educato e forte, pieno e sincero.
Regia che non t’aspetti, prova che non pensi per un Peter Farrelly che ha saputo addomesticare il troppo e congeniato bene sana commedia e parte finale carica nel giusto.
Non certo un capolavoro ma un film di grande godibilità, fatto con intelligenza e con significato mai banale.
Voto: 7½/10.

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