Gigolò per caso: la recensione di loland10

“Gigolò per caso” (2013) è il quinto lungometraggio dell’attore-regista di Brooklyn John Turturro.
Come per caso, come per vivere, come per scherzo, come per incontro, senza pensarci, senza voglia, senza moda e senza codice, lo spettatore entra per corrodere e ridersi attorno ad un film che di coppia conosce e ha rimosso ogni leggero sapore di ironia nascosta che s’insinua volutamente nel cartellone tra i due passi diversi di una metropoli già ridanciana usuale e scoppiettante per chi ne ha sentite fulminee di battute ammutinanti mentre lo sguardo arriva, infine, legato, vitreo e per nulla accecante.
Il regista Turturro prova a scrivere una storia simbolica e delineata su argomenti già visti ma con presupposti allegoricamente sociali con risvolti docili, leggeri e con appartenenze di luoghi e di giochi (assenso). Certo non sempre il cerchio chiude quello che pensa di mostrare e la lievità del dialogo (seppur tendente al ricercato) appare mite, asciugata e, alla fine, alquanto ristretta. Un film che, nonostante, qualche buon spunto, arriva vicino e colpisce poco oltre il dovuto con ritornelli e sapori di parole pilotate e, quantomeno, contenute nella dicotomia della struttura narrativa (o di quella interessante che si lascia presagire sotto le righe). Tutto in escursus semplice e lineare, senza tante complicazioni e strutture con un contorno femminile ad hoc alla causa ma poco sfruttato o meglio mescolato per la causa e alquanto algido nelle conseguenze di una storia strettamente confinante.
Murray e Fioravante sono a loro modo due perdenti che vivono a Brooklyn in modo uguale e diverso: l’uno è un libraio che deve chiudere l’attività (‘nessuno legge più…dove andiamo a finire) e l’altro è un fioraio senza molto denaro e con poche idee (ora elettricista e ora idraulico a tempo perso). I due si incontrano ed ecco che per cercare di rompere una routine con pochissime soddisfazione Murray propone a Fioravante di fare il gigolò che per il ‘materiale’ ci pensava lui. Un inizio balbettante per il ‘non bello’ Fioravante ma poi si decide e ci prende gusto anche perché arrivano centinaia di dollari con mance ad assecondare.
‘Menage a trios?’ con una domanda risponde Murray a richieste più bizzarre. ‘L’ultima volta? Nel 1977 quando c’è stato il block-out…’ termina con misurato contegno il ‘pappa’ dell’amico idraulico (‘sa è molto bravo’ aggiunge sempre). ‘Ma non sono bello?, ‘E perché Mick Jagger è forse bello?’ risponde il più convinto pensionato libraio. Tutto per scherzo ma poi il gioco finisce in un tribunale particolare quando il ‘mondo ebreo’ insorge di fronte a simili oscenità e ad argomenti così espliciti (in un contesto irriverente e alquanto mistofelico). Fa capolino per bene il sentimento di ‘Virgilio’ (Fioravante) di fronte a una donna vedova (Avigal) in crisi continua mentre la dott.ssa Parker fa di tutto per rompere ogni schema con una Selima troppo accattivante per un ‘gigolò’ alquanto particolare. E quando il gioco è al capolinea ecco che lo ‘svitato’ Bongo (Murray) adocchia una ragazza all’occasione per schernire il suo socio e far ricominciare il tutto…
Il film ha un inizio subito in argomento e dopo un primo incontro pare promettere situazioni di vero gusto commedy e sorrisi amari: invece il piatto appare leggermente liscio e alquanto insipido in alcune situazioni. E’ pur vero che il tema della solitudine e del confronto sociale si mostra in modo chiaro ma non riesce a scardinare alcuni luoghi comuni (come ad esempio, la vedova incontentabile, la dottoressa disinibita, il ‘pappa’ dimesso e disincantato) come ogni conto da restituire per uno spettatore che non disdegna movenze di labbra e un senso di partecipazione poco coinvolgente. I duetti Turturro-Allen sono anche simpatici (e un minimo accattivanti) ma è il regista di ‘Manhattan’ (nonostante gli anni e qualche ruga di troppo…) a mantenere il (piccolo) banco della ripresa (e chi sa se si è permesso qualche libera uscita personale e un segno distintivo al di fuori della scrittura di Turturro…e della sua regia…) e a mantenere vivo il film anche quando i dialoghi latitano e da par suo si muove col passo che conosciamo tra le strade di Broocklyn (come se ogni sua musa è ancora lì nei pressi ad aspettare la battuta fulminea del maestro newyorkese).
Il cast armonizza bene e sfrutta al minimo le capacità e l’ironia (soprattutto) di Sharone Stone che tende a ‘rifare’ se stessa in gesti e modi che conosciamo (sul divano che aspetta il ‘gigolò’ crede ancora in un ‘basic instinct’ d’incontro mentre Sofia Vergara pomposamente si da le arie giuste per gustare il limite (claustrofobico) del sesso nel film. Comunque una discreta armonia in una regia rituale e non certamente da ricordare. Riuscito il ritmo musicale del bassista messicano Abraham Laboriel
Voto: 6–.

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