“Father and Son” (Soshite Chichi Ni Naru, 2013) è il sedicesimo lungometraggio del regista e sceneggiatore di Tokyo Hirokazu Kore-eda.
Ecco come le prospettive cambiano bruscamente e senza nessun avvertimento; ecco come la vita forte e vincente viene sconfitta in un baleno; ecco come il chiuso nido familiare scoppia all’improvviso in un tritume interiore che scombussola ogni piccolo gioco, segno e scherzo di un figlio con suo padre.
Il film ‘Father and Son’ è fatto di piccole cose, di vie nascoste, di manifestazioni ritrose, di riprese lontane e circolari, di colori smorzati e di ambienti circondati; senza voglia di strafare bevande e patatine tra colori plastificati e strade abbassate lungo i fili dell’alta tensione. Per andare in carrellata seguendo i volti (lontani) dell’auto mentre il ritorno sfinisce in alto lungo le correnti elettriche senza un paesaggio da seguire. Oramai le vie delle famiglie si ritrovano senza destino. Tutto è staccato e tutto è attaccato in un cielo consumato.
Nonomiya e Midori vivono beatamente nel loro chiuso familiare con il figlio Keita di sei anni. Una telefonata dall’ospedale dove è avvenuta la nascita del figlio li avverte di uno scambio di neonati. E così il loro vero figlio è un altro che vive in una famiglia completamente opposta al loro tono di vita e dal punto di vista sociale. Il professionista di successo si scontra con il piccolo bottegaio di lampadine e accessori per la casa, l’ambiente borghese e di stile è opposto a quello semplice e di basso tono del commerciante
I due gruppi si vedono, i figli si conoscono (ma ancora non sanno), le mogli cominciano a parlare, i mariti non sempre si incrociano bene; vengono nominati degli avvocati per i danni all’ospedale e al processo viene fatta deporre l’infermiera che ha creato il pasticcio. I soldi ci sono sempre in questi casi, il prezzo esiste ma non si può comprare tutto. L’affetto, l’armonia, lo sguardo, la complicità e il gioco per vivere non si possono né scambiare, né barattare e, tanto meno, considerali semplici mercerie di stupidi tremori da adulti.
E perché i bambini sanno guardare, scrutare, osservare e carpire le piccole semplicità di un padre vicino e di quello lontano; i giochi si possono comprare nuovi ma vuoi farli aggiustare (con delicatezza e voglia di regalo) da un padre che non ha soldi da buttare. Tutto l’opposto quello arrivista e di poche parole che non ha tempo da sei anni (l’età del figlio) con quello che dice ‘non fare oggi quello che puoi fare domani’ e che gioca con piacere con i bambini (tre figli di cui uno ‘sconosciuto’ fino a ieri). Un papà pieno di progetti be fogli e un papà quasi fannullone e pieno di fantasie leggermente infantili. Con un tocco lieve e leggero, con una ripresa accarezzevole e delicata, il regista ci rende li immagini con un gusto dimesso e con una cadenza di affievolita drammaturgia. Un resoconto fatto di piccoli gesti, di parole non dette e di richiami mai effettuati. E soprattutto di tanti perché che i bambini ma nessuno risponde, non vuole rispondere e, forse, non sa rispondere.
‘I bambini ci guardano’ (1943 di Vittorio De Sica) come non mai, non si arrendono facilmente e danno risposte sincere che (credi di) non aspettarti. E il papà Nonomiya che non vuole a che fare con ‘il bottegaio’ si ritrova ‘sconfitto’ come non mai e le sue sicurezze diventano dei semplici muri ad un egoismo solo privato. Ma è l’egocentrismo familiare che si schiude completamente e quello che sembrava preconfezionato si snebbia di facili scontri e litanie retoriche di luoghi comuni. I bambini s’arrendono non facilmente e arruolano il loro animo nel corpo dei rispettivi genitori. Una vita d’amore in un sentiero parallelo al figlio che alla fine abbracci un padre ma ne cerca e ne desidera un altro quello che gli dà un vero gesto d’affetto interiore.
Con una sensibilità oltremodo salutare, un respiro di ossigeno sospeso, una fotografia ariosa-mente assopita e un contorno povero del superfluo, la storia arriva ad un epilogo di un sollievo non risolutivo e di una gioia alquanto basita e priva di razione. E i titoli di coda con un suono ‘classico’ ci riporta ogni notizia fino all’ultimo schermo nero con un vociare ‘basso’ di bambini che aleggiano sempre in tutto il film.
E i ruoli che si scambiano, i figli che non hanno paura, le madri che cercano tenerezza, il cibo che allieta qualche notizia, le foto che possono raccontarci, i padri che possono ritrovarsi e figli che spazzano barriere prima di costruirle. La vita degli specchi contrapposti si svela leggermente ironica e vagamente intristita di un tremore interiore che fa fa fatica ad uscire. L’espressione della bella armonia in un quadro tutto da iniziare. Il tempo che scorre ineluttabilmente e che pensiamo di non sfiorare invece ci tocca per sempre e il sangue della nostra carne è solo ardimento legale come l’avvicendarsi di situazioni non conosciute (il resoconto umano degli ambienti cambiano i sentori di tutti e i bambini scompaginano ogni nostro raccontare, un fenotipo annulla un genotipo che non riconosci più).
Il cast (Masatharu Fukujama, Yoko Maki sono i coniugi Ryota) è di gradita interpretazione e di sapiente gioco reale con tutti in risalto senza difetti di sorta o alloggiamenti innaturali. La partitura musicale si rifà alle Variazioni di Bach (struggente ritmo in più fasi ma con un marchio e una compostezza da far accapponare la pelle). Una commozione che s’erge prima di ogni fine.
La regia di Hirokazu Kore-eda rientra in un comoda routine di alto livello, nessuna interazioni con sbavature inutile, anzi alcune sovrapposizioni (strade, luci, corridoi e notte) creano una giusta attesa appagante e non certamente sminuente. Una regia di chiosa ripresa narrativa a tutto giro. L’auto in parcheggio davanti al bottegaio è un’entrare dentro al quadro ancora da incorniciare.
Voto: 9+.