Enter the Void: la recensione di Mauro Lanari

Tre film in uno – Da un punto di vista che però non è quello d’Oscar o di Noé, più arrosto che fumo. A differenza di tanti commenti, ho provato maggior fascino per la 3a parte del film, e un fascino irresistibile. Prendendo in considerazione solo l’ultim’ora, ed escludendo l’epilogo, lo giudico un capolavoro nella storia del cinema, e di preciso il controcampo di “Va’ e vedi” d’Elem Klimov, 1985. Lì dove il genocidio bielorusso assumeva un valore metafisico, apocalittico e universale grazie soprattutto alla ripetuta scena del bombardiere nazista col suo rombo cupo e lontano, così terribile da bloccare il decorso di storia e Storia, qui la prospettiva dominante diviene alla fine proprio della mdp aerea che, avvoltoio sulla nostra mortalità, volteggia feroce nella sua “danse macabre” in attesa del nostro “cupio dissolvi”. Eccezionale nel progressivo avanzare del nero su cromatismi, forme di vita e vitalità, del distacco e verticalizzazione da volti, lineamenti e fattezze umane, del sonoro che si distorce in rumore sordo, ovattato e straniante, è fra le migliori rese artistiche mai realizzate sulla condizione di noi dannati su questa terra. Il crescendo giunge al vertice esplosivo nei circa ultimi 20 minuti di sesso: corpi illuminati quasi dall’interno ed emananti fluidi ectoplasmatici libidici e nefasti, voluttuosi e ferali, irredenta simbiosi d’Eros e Thanatos. A tutto ciò s’era avvicinato a malapena il video girato da Stéphane Sednaoui per “Lotus” (1998) dei R.E.M. (https://www.youtube.com/watch?v=vu2jN3d2zzU). La “coniunctio oppositorum” tra fotografia dechirichiana e “ultrarealistica” (cit.) esclude qualsiasi propensione retorica, enfatica, pedante e lo stile di regia ricercatissimo, sperimentale, avanguardistico è perfetto per supportare una poetica da “descensio ad inferos”, dove primi piani d’aborti e d’eiaculazioni vaginali creano un unicum inscindibile, memorabile, imperdibile. Però il film dura oltr’il doppio, ci sono anche la sciocca storia d’Oscar, ventenne tossico pusher orfano traumatizzato con sorella diciottenne, e frattaglie di vulgata psicoanalitica, un tot d’Edipo e un tot d’incesto. Peggio ancora, c’è Noé che prend’a prestito le proprie esperienze di viaggi extracorporei sott’effetto dell’ayahuasca per rifilare un pippone buddhista alla Castaneda, vincolando “Entro il vuoto” a un’antropologia dualista pretenziosa quanto sempliciotta. Almeno Russell basava i i trip d'”Altered States” (1980) sugl’esperimenti scientifici compiuti nelle vasche di deprivazione sensoriale. Il vero fardello della pellicola sono dunque l’autore e il protagonista: più s’allontana dalla loro soggettiva pre e post-mortem, 1a e 2a parte del film, più acquista una qualità oggettiva grandiosa, 3a parte. L'”happy ending” vanifica l’intero precedente clima disperato e nichilista, obbligando a reinterpretare l’orgia del Love Hotel com’Oscar che passa di stanza in stanza per scegliere dove reincarnarsi e decidendosi per il neonato della sorella. Orribile: ricorda lo “starchild” d’un certo “2001”.

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