Sorrentino racconta il proprio adolescenziale “oro di Napoli” schiantato in due dalla morte dei protagonisti, i suoi genitori. Una struttura narrativa osata e usata solo da Friedkin in “Vivere e morire a Los Angeles” nell’85, ma in quel caso era fiction, seppur grandiosa. I critici paragonano la prima metà del film ad “Amarcord”. Vi è citato un aneddoto, suppongo apocrifo: “A un certo punto lo chiama un giornalista e Fellini gli fa: ‘Il cinema non serve a niente, però ti distrae…dalla realtà. La realtà è scadente.'” Una dichiarazione di poetica per interposto cineasta: l’emulo mir’a un affresco corale però gli riesce un acquarello stinto, una blanda messinscena circense. Come ha dichiarato in altre occasioni, vorrebbe darsi alla commedia ma gli escono dei drammi. Oppure nessuno dei due, aggiungo io. Poi, dalle convulsioni dell’alter ego Fabietto, smette di gigioneggiare. I critici paragonano la seconda metà del film a “I vitelloni”. Non credo che quest’insistiti raffronti felliniani gli giovino: la fuga di Moraldo verso Roma, lontano dalla “pochezza dell’esistenza di chi ha perso il Paradiso e cercherà di ricostruirlo attraverso la finzione dei set” (Paola Casella), qui è descritta con una nostalgia formale diversa. Del virtuosistico piano sequenza iniziale col drone sul golfo partenopeo resta il ricordo del suono degli offshore in campo nero. Quando non è discontinuo, Sorrentino colpisce al cuor’e fa male. Dopo vent’anni di carriera, mi piacerebbe che ripartisse da qui.
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