“Dune” (Dune: Part One, 2021) è il decimo lungometraggio del regista canadese Denis Villeneuve.
La pellicola è la prima parte dell’adattamento cinematografico del romanzo omonimo dello scrittore statunitense Frank Patrick Herbert (pubblicato nel 1965) primo capitolo del ‘ciclo di Dune’: lo stesso libro fu trasportato sullo schermo da David Lynch (Dune, 1984); inoltre sono state effettuate due miniserie televisive ‘Dune il destino dell’Universo’ (2000 -3 puntate-) di John Harrison e il seguito ‘I figli di Dune’ (2003 -3 puntate-) di Greg Yaitanes.
Il cursore cine di Villeneuve sale e scende e linearmente avanza il fondo di sollecitazione immaginifica vista in fantasia, roboante nei criteri, contorta nei neuroni ma alquanto vispa, teatrante, lunga e regnante. E’ un cinema staticamente allarmante dove il ‘punto di vista’ è in angolo (acutamente silenzioso) e la forma s’arrende sulle voci plasmanti: è la prigione inerte che sfocia senza freni dal buco per respirar ossigeno (da ‘Prisoners‘ a ’Sicario’): una fuga inespressa, e un arrivo inesploso, ma ogni quadro di immagini attecchisce e rumoreggia dal fondo di ognuno. La fantasia incontra il ‘Karma’ fantascientifico degli anni sessanta. Un guscio di speranza future e di arrivi mai finiti. La chiusa aperta. Schematico, può darsi, ma gocciolante di fragore intenso e di luci spente. Un cinema sotto la superficie. Luccicante a ritroso, annebbiato di falso rigore. E’ il muro del suono in ottani al quadrato.
Un cinema di misure ad hoc, di strumenti volanti e di schemi vistosi. Cinema che si allarga, si snoda e scomoda la tua sedia accorata e numerata in codice. La sala stenta ad arrivare e tumultuosamente, rumorosamente si invola con le sedie semivuote.
Elegia della settima arte in stile accessorio senza mai tentare, la pomposità spicciola e la corte di un cinema solo di cartapesta. Anti-hollywoodiano o fintamente spettacolare?
Ambientazioni, silhouette, ombre, penombre, colori grigi, nebbie e accumuli sagaci rendono la pellicola gustosamente arcaica e seccamente moderna. Senza fronzoli di sorta il cinema del regista canadese,risulta alquanto pieno di inespresso gioco. Il cuore di un pulsare continuo. E la musica di Hans Zimmer coglie oltre l’immagine l’inquadratura fuori registro. Un cinema antico ma di grande effetto scenico. Prende e conquista ogni minimo sforzo visivo di sguardi impietriti, di gocce di sudore, di granelli volanti, di note a turbina, di veemenze succulenti e di rotazioni di ripresa da brivido. In più momenti il sonoro e il suono sono talmente vistosi, corroboranti e alti che giri come un otto volante in sintonia di proiezione. Purtroppo, ripeto purtroppo, le teste sono davvero poche (neanche venti) a vedere e gustarsi un film altamente appetibile e invogliante.
Cinema in cui si riconosce la cifra di re Artù e della tavola rotonda, il mito come maestro salubre e la spezia come viaggio (‘Il Milione’ di Marco Polo e non solo verso l’Oriente). L’eletto, il messia come ritrovo e inizio di un maestro vivo ancora in viaggio: il laicismo ‘mesto’ e ‘cristiano’. La Preziosa ‘spezia’ e la morte, il rumore e il Duca, il vuoto e l’alacre funerea su Arrakis (in visioni e sperenze).
‘Devi vegliare la tua famiglia’: un qualcosa di spirito e aldilà (’Il Signore degli Anelli’);
‘Io resto qui’: un’avventura segnata e un ritrovo ‘desertico’ (‘E.T. l’Extra-terrestre’);
‘Tanto profitto e …uccidili tutti’: il solito gioco, quello che conosci, tanto vale; la testa-cranio fuoriesce e s’immerge da un liquido tetro (‘Scarface’, ‘Apocalypse Now’);
‘Il bello viene ora’: il seguito da farsi e un viaggio appena iniziato (‘Excalibur’);
‘Il potere del deserto’: ecco il colore smorte di dune sinuose (‘Lawrence d’Arabia’).
Cast;
Timothée Chalamet (Paul Atreides): impressione, sembra fuori parte, invece i suoi modi e la sua sagoma gira benissimo per tutto il film; bravo e soprattutto con i movimenti facciali da tenebra nel deserto, aspettando il contatto con il grande ‘verme’, un ‘duello’ vocale;
Rebecca Ferguson(Lady Jessica Atreides): asciutta, mesta e forte, volontà di tramandare il destino vocale;
Oscar Isaac(duca Leto Atreides): di grande portamento e levatura, segna lo sguardo del figlio ‘eletto’; versatilità di ruoli e atteggiamenti (dai Coen a ‘Star Wars’;
Dave Bautista(Glossu ‘Bestia’ Rabban): dal wrestling alla Marvel, fino a ‘rendersi antipatico’ con la testa che esce dalla ‘liquida’ (spezia); teatralmente onirico;
Charlotte Rampling( Gaius Helen Mohiam): lo spirito strega della ‘dura madre’: prova di forza e sguardo rabbuiato;
Javier Bardem(Stilgar): oramai il ruolo ‘contro’ gli si addice (da ‘Skyfall’ a ‘Escobar’, da ‘Madre!’ a ‘Dune’); ma vederlo in ‘Biutiful’ e ‘Non è un paese per vecchi’ è un piacere e lascia il segno;
Fotografia di Greig Fraser: grande cromatismo in oscura sotto traccia, immagini sospese tra colori riluttanti;
Montaggio di Joe Walker: vera maestria in una pellicola puzzle; lavora con il regista canadese da ‘Sicario’ (2015);
Musiche di Hans Zimmer: imperiose e fulminanti, roboanti a fulmicotone, aperte e compulsive;
Regia di Denis Villeneuve: sintetico e voluminoso, post-moderno e senza scaramanzia (di remake in remake),
Voto: 8/10 (****) -cinema epistolare-