Downton Abbey II – Una nuova era: la recensione di loland10

“Downton Abbey II – Una nuova era” (Downton Abbey II: A New Era, 2022) è il quinto lungometraggio del regista-produttore londinese Simon Curtis.
Un seguito variopinto, rumoroso, vintage, vissuto, perspicace e con una scrittura ‘secca, glamour e sagace’. Ci si diverte nella miriade di dialoghi, di scontri verbali, di bei modi, di vita che scorre e di ambienti colorati. Tutto appare poco spento e tutto appare in set (con vivacità sui luoghi comuni e il mondo presente e a venire della settima arte).
Intensi, ironici, silenzi persi, modi e stili nei personaggi e nel loro porsi con naturalezza.
Il periodo storico e le vite raccontate si incastrano in sfaccettature ‘puzzle-dipendenti’ per farci sentire gli accadimenti lontani ma vicinissimi alla/e dinastia/e della tenuta dei Dawnton.
Tutto va e viene, le persone possono andare via ma ‘la famiglia rimane’. Il senso dell’appartenenza e della dipendenza di ogni compito.
I sottopiani, i bassi piani come quelli alti hanno alla fine, ma sempre, un lascito di umanità di forma che è vita in ogni mondo ristretto che tende sempre ad allargarsi.
Incipit e titoli di testa con un matrimonio. Bisogna dite che in pochi attimi, mentre scorrono i vari nomi del cast, si ha la giusta sensazione del prodotto che si vede. Coinvolgente e distante, sentito e distaccato. Un modo di fare cinema tipico inglese che rende il racconto tutto con un un sorriso ristretto, un silenzio giusto e un coinvolgimento amorevole.

‘Questa casa infestata da plebaglia del cinema’. Con voce ferma e arguzia femminile, con livore azzerato e misura chic, la Contessa madre (Violet) pronuncia le parole che allungano il film a considerazioni spassose e di quello che fu l’arte della ‘ripresa’ e di quello che attende ‘il grande schermo’ oggi accerchiato da misture ‘danarose’ di ogni svariato tipo. Elenco lunghissimo.
Ma la tenuta ha un tetto che fa acqua. Letterale. Bisogna pure non disprezzare il denaro …che arriva da certa ‘plebaglia’. Tutto cambia in fretta e il cambio di avere un riscontro (immediato) delucida menti ottuse o aliena il sarcasmo dell’incasso facile (che poi sono la stessa cosa). Dal muto al sonoro, il cinema è in evoluzione: dal silenzio dei divi al sonoro canto di vite ingarbugliate fra loro. Ecco che la ‘soap-tv’ è già in ‘Downton’ mentre il cinema arriva dentro per farsi largo.

Non siamo dalle parti di ‘Quel che resta del giorno’ o ‘Casa Howard’ (di James Ivory) o ‘Gosford Park’ (di Robert Altman), ma il film si vede con gran piacere e non stanca affatto; infatti si sente e si vede lo scambio facile tra piccolo e grande schermo con ‘schemi’ e ‘guizzi’ tipici del prodotto in pausa per uno stacco (di ‘gradevoli’ spot). Niente di male (e certamente più di qualcuno sente strani odore e puzza sotto il naso): un qualcosa di addomesticabile in un’ambientazione di lusso e stanze strapiene di ‘quello che desideri’.
Il finale, con funerale, con commozione sincera e trattenuta, si allunga e si sposta verso un ‘ritorno’ in casa (con nascita acclusa). Giusto un minuto per una ‘prossima puntata’ (cine).
Cast di livello e con grandi nomi. Attenzioni ai minimi particolari e posture vive e teatrali.
Tra i/le tanti/e una spanna a tutti si deve dare a Maggie Smith. Non si dimentica ogni suo sguardo, fisso e sbilenco, come ogni movimento e racconto dalla sua bocca. Oscar in ogni dove per quello che ha fatto. L’età della dolce ironia a Dawnton.
Regia: ammiccante e avvolgente; il mestiere serve sempre.
Voto: 7 (***½) -cinema amichevole-

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