Doppio gioco: la recensione di Gabriele Ferrari

Freddo e grigio come il cielo d’Irlanda sotto il quale si svolge, il nuovo film del premio Oscar (per un documentario, Man on Wire) James Marsh è tutto quello che thriller e spy stories che arrivano dall’America non riescono (quasi) mai a essere: un’opera dall’incedere lento ma inesorabile, in cui ciò che viene detto (e non detto, soprattutto) conta più di una sparatoria, un inseguimento o una rivelazione-shock, in cui le spie non sono strumenti ma esseri umani, e tridimensionali. E in cui, di conseguenza, l’azione, quando c’è, è intensa e un omicidio è un evento con un peso specifico e conseguenze tangibili, non una riga di sceneggiatura utile a mostrare un cadavere e un po’ di sangue.

Tanto per capirci: chi è abituato a Mission: Impossible, a Bond, a Bourne si sentirà a casa probabilmente solo per i primi, intensi minuti: Collette (Andrea Riseborough, eccezionale), adolescente, assiste impotente all’omicidio del fratello da parte dei servizi segreti britannici, ed elabora il lutto unendosi all’IRA. Salto in avanti di vent’anni, siamo nel 1993 e Collette sta cercando di piazzare una bomba nella metropolitana londinese; braccata dagli stessi segreti segreti, arrestata dopo una lunga fuga, le viene concessa una seconda chance: spiare i propri stessi fratelli, luogotenenti dell’organizzazione terroristica irlandese, in cambio della libertà, della vita del figlio e forse di una verità inaspettata. Il doppio gioco del titolo italiano diventa così triplo, quadruplo – ci sono di mezzo anche un agente britannico, interpretato da Clive Owen, e la sua capa, doppiogiochista anche lei, cui presta il volto Gillian Anderson –, e Collette si ritrova a danzare tra le ombre della sua paranoia, tra silenzi e mezze verità, in un thriller che ha poco dell’action e si gioca tutto su ansie, angosce, non detti.

Marsh ha gioco facile a inscenare il suo dramma: la sua passione per la Storia (e le storie dentro la Storia) va a braccetto con la sua regia minimale, tutta colori spenti (fa eccezione un cappotto rosso acceso indossato da Collette: caso o citazione?) e dialoghi scarni. Fin troppo: quando non è meditativo o teso, Doppio gioco è semplicemente troppo lento, e in un film in cui la tensione è costante si rischia l’assuefazione troppo presto. Grigia l’ambientazione, grigia la morale: chi sono i cattivi? Chi muore meritava davvero di morire? Saggiamente, prevedibilmente per un regista di documentari, Marsh sceglie di non prendere posizioni e di lasciare che a parlare sia la storia. Buona fortuna, dunque, se deciderete di trovare a tutti i costi una risposta, o un colpevole, o un eroe: la vita vera non funziona così, ed è rinfrescante che ogni tanto sia il cinema a ricordarcelo.

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Mi piace
Storia, personaggi, ambientazioni: Doppio gioco è un thriller politico nel senso più nobile del termine. Menzione d’onore per la straordinaria Andrea Riseborough.

Non mi piace
Il film tende a rallentare nel secondo atto, con il rischio che la noia faccia capolino.

Consigliato a chi
Ama i thriller e le spy stories, e in particolare la via europea (autoriale, poco fracassona) al genere.

Voto: 4/5

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