Nella categoria dell’arte autoreferenziale, autoanalitica e autobiografica, reputo più interessante il confronto con altri autori rispett’a quelli che ho trovato citati nelle recensioni a “Dolor y gloria”. Non l’ho percepito un film riuscito, non ho ricevuto l’impressione ch’Almodóvar abbia saputo o voluto trasfigurare il suo personalissimo materiale. L’inizio coi capitoli “geografia” e soprattutto “anatomia”, elenco animato dei vari acciacchi di salute, prometteva una forma di rielaborazione trieriana, potentemente ingegnosa, sarcastica al limite dell’autoparodia, ma non sono tonalità ch’appartengono alla tavolozza di Pedro. Altro regista notorio per la tormentata ricerca d’estendere il proprio ombelico alla condizione umana è Moretti, e il suo film migliore è quel “Caro diario” (1993) in cui s’è vincolato a una struttura classica come quella wolffiana (la stessa presente anch’in “Antichrist”, 2009). Qui invece siamo vicini a un flusso di coscienza liberatorio e catartico più per chi lo esprime che per chi ne fruisce. Dett’altrimenti, ho qualche difficoltà a identificarmi con questo tipo di resoconto d’una vita eccentricamente banale, troppo soggettivo e troppo poco oggettivo.
Non capisco poi come si faccia a equivocare tra “8½” e “Amarcord”, tra un bilancio esistenziale provvisorio ed uno testamentario di fine carriera. “Caro diario”, Trier, “Youth” di Sorrentino rientrano nella 1a specie, questo d’Almodóvar nella seconda per ovvie ragioni anagrafiche.