Diaz – Don’t clean up this blood: la recensione di Massimiliano Morelli

Non un film politico. Un film di esigenza. Perché, come ben racconta quel ‘Non pulire questo sangue’ sparato nel sottotitolo, l’obiettivo e la cifra meritoria di Vicari stanno proprio nell’ evitare che un Paese troppo avvezzo alla memoria corta, possa mandare in prescrizione anche le sue vergogne recenti.
Nel cinema socio-politico, a cui Diaz è stato forse troppo frettolosamente ascritto, il racconto è spesso sceneggiato dalla storia, va da sé su nastri di trasporto automatici. Piace notare, onore al merito del regista laziale, come invece questo racconto sia autonomo oltre le aspettative, e sia molto meno intriso di politica e social forum, di quanto il battage mediatico preventivo abbia fatto credere e avesse voglia di farci credere.
Una vicenda che si fa corale e viaggia a stretto gira di posta temporale intorno alla scuola-macelleria, e intorno ai suoi protagonisti, tutti, da Germano a Santamaria, volutamente sotto le righe in favore dell’ epica disfatta del racconto. Di violenza ce n’è, sonora e visiva, ma non è celebrazione ematica splatter, come in un percorso di masturbazione Tarantiniana, è semmai sangue che racconta, che resta incollato alle pareti della Diaz, per farsi guardare da chi c’è arrivato il giorno dopo, e ha provato a raccontarlo al mondo, contro i chiari intenti statali di occultarlo.
Film che scorre veloce, non potrebbe essere diversamente dato il taglio documentaristico e la vicinanza storica del fattaccio brutto genovese, e si fa apprezzare per la sua onestà. Non già contro la Polizia, in modo bieco e faziosamente distorto, semmai contro la Pulizia, della memoria, della testimonianza, del sotterramento nei cassetti di Stato, della polvere sotto i tappeti ministeriali. Tante micro-storie di piccoli uomini, dal vecchio sindacalista CISL, al giornalista assai poco militante, passando per i ragazzi del Media Center, e al manager che non trova un posto migliore dove addormentarsi, tutti annegati per sbaglio nel bagno di sangue incomprensibilmente caduto per errore voluto, addosso alla nostra democrazia.
Ed un film che prende le distanze dal soffocamento dibattuale della fase I del G8, che cita Giuliani, ma non lo tocca più, così come non offre alcun riparo ideologico ai Black Block, se non quello di un piccolo baretto dove anche loro potessero avere paura. Proprio da questa onestà, dalla ricostruzione degli atti processuali fedele ma non strumentalizzata, nasce la sensazione di un lavoro che andava fatto e va visto, perché riempie. Di interrogativi, su una notte di folle interruzione della capacità di intendere e volere degli apparati di pubblica sicurezza di questo Paese, ma anche di rimorso. Per aver vissuto un simile black-out di democrazia, senza che ce ne fossimo accorti in troppi, e per aver permesso che nessuno, prima, con lo obiettivo trasparente della macchina di Vicari, spazzasse via undici lunghi anni di polvere e oblio dalle nostre coscienze.
Diaz ci ricorda allora di non pulire via quel sangue. Ma anche, ed è quello che fa più male all’uscita di sala, che quel sangue è stato versato. E se le macchie vanno via, le ferite e i perché restano quanto mai aperti e sanguinanti.

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