Cobain – Montage of Heck: la recensione di Luca Ferrari

La privacy violata di Kurt Cobain

Ha gridato (e incantato) disillusioni, alienazione, rabbia e dolci urgenze emotive. In una fredda e sconsolata giornata di aprile poi, ad appena 27 anni, scelse di farla finita. Il suo nome era Kurt Cobain (1967-1994). Brett Morgen dirige il documentario “Cobain: Montage of Heck” (2015). Un lavoro fin troppo invasivo dentro il privato dell’artista.

Aberdeen (Wa, USA) ’67, provincia americana. I coniugi Wendy E. Fradenburg e Donald Cobain mettono al mondo il loro primogenito Kurt. È un bambino vivace e amorevole. È instancabile. Gioca, corre, disegna. È iperattivo e sua madre è preoccupata. Decide allora di portarlo dal medico obbligandolo ad assumere pillole per “calmarsi”. Di lì in poi, il giovane inizia a sprofondare in un turbine di solitudine, contatti stupefacenti e pensieri suicidi. Il già provato equilibrio di Kurt si spacca del tutto con la decisione dei genitori di separarsi (all’epoca non certo comune come ai giorni nostri).

Ad aumentare il suo disagio umano-esistenziale, la società machista di Aberdeen. A dispetto delle incensanti parole della madre su quanto fosse bello vivere laggiù, è una realtà che cammina tronfia sui binari dell’esaltazione del maschio virile e armato scopa-femmine. Per un animo (iper)sensibile come quello di Kurt, è una prigione a cielo aperto. Non è un caso che molti dei suoi testi (e disegni) avranno come bersaglio proprio questo modello di uomo.

Kurt viene sballottato da un parente all’altro. Non combina quasi nulla ed è intrattabile. Vorrebbe stare con la madre, proprio colei che per prima lo ha messo alla porta. Kurt è ancora un ragazzino quando arriva a tentare il suicidio la prima volta. Come una tisana lenitiva, comincia a suonare. Insieme all’amico Krist Novoselic fonda un gruppo.

Se la prima parte del documentario ha per assoluto protagonista il Kurt acerbo adolescente alla ricerca di una strada (e una casa), il “secondo tempo” vira deciso verso un’altra persona, Courtney Love, sua moglie.

Per tutti quelli troppo giovani per aver vissuto i Nirvana in real time così come coloro che non seguirono l’evolversi della band e la fine di Kurt, l’immagine che emerge dal documentario di Morgen, aldilà degli aspetti più evidenti, è un ritratto a tratti molto contraddittorio. Il regista inoltre si sofferma troppo sui deleteri effetti della realtà familiare (cruciale, certo), chiamando però in causa con minor intensità l’altrettanto funesto ambiente scolastico, riducendo il tutto a sconsolati spezzoni animati di “KillBilliana” memoria.

Sebbene meno importante per i Nirvana rispetto ai Pearl Jam, in “Cobain: Montage of Heck” mancano del tutto i riferimenti alla scena musicale di Seattle, e così pure il contemporaneo movimento rock femminista Riot Grrrl. Appena un accenno a Buzz Osbourne dei Melvins, e neanche mezza parola sui tanto ammirati Mudhoney, la band in cui Kurt avrebbe più voluto suonare. Quasi superfluo dirlo, è a dir poco inqualificabile l’assenza del batterista Dave Grohl, lasciando al solo Novoselic la parte dei “band-ricordi”.

La seconda parte della pellicola come anticipato, si concentra quasi esclusivamente sulle dipendenze di Kurt e Courtney, con filmati privati a tratti anche “tossici” e in presenza della figlia piccina. I diari mostrati al grande pubblico poi, con l’inspiegabile via libera della figlia Frances, rivelano quello che Kurt non voleva si sapesse. E allora perché? Perché questa violazione della sua privacy?

Per fortuna, ci sono anche “loro”, le canzoni. Perché aldilà della vita personale di Cobain e i deleteri eccessi tossicodipendenti, le sue emozioni sublimate nella musica resteranno la memoria imperitura dentro ciascuno di noi.

voto film: 2/5

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