“C’era una volta…a Hollywood” (Once Upon a Time in Hollywood, 2019) è il nono lungometraggio di Quentin Tarantino.
Al nono film da regista, produttore e di scrittura, l’autore del Tennessee ci mette la sua anima da cinefilo e il suo battito da pistolero.
Anno di grazia 1969: set e contro figure, attori in disgrazia e divi solitari, vite sfrenate e morte in agguato, colori vivi e camicie sgargianti, sogni sfinito e autostop; da lungaggini, cazzeggio, fraseggio, ridondanza, effetti goliardici, ironia e sacralità del grande schermo….tutto questo in un film che si vede senza stanchezza e con un modo vivendi di buona compagnia.
Il gusto della messa in scena, la lentezza recitativa, le pause di studio, gli errori, i personaggi minori e il partecipare alla cosiddetta gloria del ‘b-movie’ fanno del regista il fan per eccellenza a tutti gli effetti e in questa pellicola deborda , si inchina e si invaghisce di ogni particolare che pare inutile (apertura di una lattina, scarpe da cowboy, scatolette per cani, sigarette e drink).
Quelli che seguono Quentin dalla prima ora saranno pieni di ogni cosa e di andare in brodo di giuggiole in ogni movimento di ripresa. La leccornia è alta e il gusto alle bellezze nostalgiche che furono saranno di gradimento per i più accaniti.
In questa pellicola il cinema e i suoi contorni, il set e la vita, il glamour e le serie tv, lo sbando e il bere, l’euforia e il Vietnam, la crisi e gli agguati mortali. Tarantino osa per raccontarsi e raccontarci l’anno di separazione tra quello che fu e ciò che sta per accadere: in esso i giorni contano come le ore quando la ‘divina’ Los Angeles con le sue ville….e i suoi contorni protetti viene soverchiata dal nuovo firmamento di star e da irruzioni di ‘capelloni’ che fanno pagare lo scontrino a se stessi. Ecco che Quentin prende parti di ogni storia per rimescolarla a suo piacimento: da Woodstock, dalla tv degli anni cinquanta, dai registi che ama, dal b movie italiano, dagli ‘hippy’ che cercano il sogno, da autostoppiste senza sennò e da goliardie varie tra ubriachezze e calzino in guerra asiatica….
L’integrazione e il rovescio doppio tra personaggi della storia, confinanti attori e chi recita come figurante e contro-figurante è sintomatica e per certi versi allarmante: tutto condito da una ironia sferzante e da un riso sotto traccia in modo costante. Il ghigno del regista tra cinema reale e cronaca di finzione.
Tra i nomi e i loro mondi, i Polanski, i Charles Manson, le Sharon Tate, i figuranti, le piscine, i sorveglianti e gli attori in declino, una divetta e un cowboy, un Rick Dalton e gli spaghetti western, un Cliff Booth e il suo cane, una camicia e un’auto sportiva. E intanto una Pussycat qualsiasi fa strada in autostop e lo stuntman si ritrova in un ranch-set abbandonato. È crisi del cinema….i divi dormano e ‘Bonanza’ va avanti imperterrita.
Le citazioni e gli omaggi, i riferimenti e le star (nascoste o meno nella storia) sono a iosa con un rischio di sovrabbondanza esagerata e una promozione limitata di quello che è la passione ‘tarantiniana’. È un ‘effetto notte’ di altri e di visite dentro il cinema. Chiaroscuri e luci da cambiare, fari spenti e un nuovo corso che si apre.
L’epilogo è tra finzione narrativa e fatti reinventati. Ridondanza marcata e un lanciafiamme che è sempre utile. La New H. si fa strada. Dei nomi a cui appartiene Quentin, eccone alcuni: Scorsese che entra di diritto nella scena finale, Kubrick che s’avvicina con il buio dietro le ombre dei ragazzotti (Manson) in foga adrenalinica, Spielberg si scompone poco tra scale a chiocciola e dei visi in auto, Polanski si adopera poco tra fogne narrative e inquilini non del terzo piano. Mi fermo perché siamo a scatafascio di film e di cast da compilare. E d’altronde il titolo non è un ‘spaghetti’ di un Leone (da saggiare).
‘Sergio chi? Corbucci….’ ripetuto più volte. Cosa vuoi Dalton… un uso conveniente per fare del gioco un uso redditizio anche se in nome degli ‘spaghetti western’. La cartellonistica dell’epoca opportunamente rimescolata fa vintage e buon effetto per un film di oggi che del ‘b’ prende il lato giusto e quello che diletta il regista appassionato.
Leonardo DiCaprio (Rick Dalton): cincischia e arranca, deborda e fa il morto, non s’arrende, scava e si adatta. Una prova che sperimenta il nuovo contro il suo personaggio.
Brad Pitt (Cliff Booth): ha la camicia hawaiana giusta (e non solo), guarda sempre in modo sghembo, si cuce un volto démodé e non cade nei tranelli. Uno stuntman che ruba le scene, nei film, e nella vita; si compiace ma pensa che il cibo Vs gustato con un buon barattolo di birra. È urrà per Cliff. Anche con un coltello conficcato.
Margot Robbie (Sharon Tate): è il sogno che si materializza o un incubo che devasta; attorno lei ruotano molte cose come l’incipit di un cinema o il reale di una notte fonda.
Non essere un ‘tarantiniano’ puro può succedere…ma la sorpresa è di un film di passione e da commedia con sorrisi e ironie a vari livelli. Da ‘Le iene’ (Reservoir Dogs, del 1992) film d’epoca e mai più riproposto si passa (ad oggi) all’omaggio sincero e di passione verso il mondo della celluloide con tutte le sue storie e contraddizioni, il suo impero e il suo sfacelo, le sue grandezze e le miserie di una ricchezza svanita. Dal 1969 come futuro da carpire.
La fotografia di Robert Richardson è lucida e disarmante, pastosa e invaghita di ombre serali.
Regia: per chi conosce Tarantino trova i suoi stilemi e gusti con in più (si permette di dire) lo scandire dei luoghi sotto cieli di color ‘tumulto’.
Voto: 7½ /10 (****) -cinema da (contro)passo-