“Belfast” (id. 2021) è il diciottesimo lungometraggio del regista-produttore nord-irlandese Kenneth Branagh.
Ecco che arriva il punto di non-ritorno. L’attore-regista ha avuto una forza e un coraggio vivi ne girare e recitare (benissimo) pellicole da drammi shakespeariani. Intensi, belli, caricati. Poi….si è voluto dedicare al cinema ‘generalista’ un po’ troppo ‘pop’, con lui sempre in prima fila e (per quanto mi concerne) i conti non tornano. Regie molto ‘altisonanti’, ‘panoramiche’, ‘accattivanti’ e il cinema si perde in risvolti non sempre congeniali.
“E con cosa torniamo? con la nebbia scozzese”, “Cerca di essere bravo e se non puoi fai attenzione”. Due battute per una famiglia che vorrebbe andare via dalla Belfast, città unica, e dal modo in cui un bimbo dovrebbe partecipare alla vita. La città nelle piccole vie diventa afflato di ‘dolcezza’ e ‘buona vita’, di “corse e saluti” e “scontri e fumi”. Tutto secondo Buddy, di 9 anni, sotto gli sguardi sornioni e sicuri dei nonni. Quelli che non lesinano consigli e giusti ricordi (i propri).
Tutto in modo sobrio, asciutto, deciso e fermo. Un quadro fisso nel regista, che appare in lontano (di)stacco, senza emozioni palpabili e un resoconto disteso e, privo, di mordente per chi osserva, Un passato che rimane e privo di ritorno a noi. Il bianco e nero diventa oltremodo ‘datato’ e già ‘dormiente’ nel cronachismo delle vie di una città che del ‘folgorante’ ha solo il panoramico (riprese dall’alto paiono completamente opposte e prive di passione con le vite familiari).
Esempio di cinema ritagliato, bloccato e vividamente ancorato alle piccole cose di Belfast.
Linee parallele, piccoli frammenti, esperienze minime e dialoghi tronchi. Un fermo immagine in leggero movimento tra pause aeree e droni in lontananza. Belfast città e ‘Belfast’ film si incontrano senza un vivo entusiasmo e con un saluto ’formale’, in puro stile ‘umido-nebbioso’ a cui le strade si addicono.
Dal colore iniziale, con riprese panoramiche, porto, palazzi, vie e sprazzi di grandi movimenti,
Si passa ad un bianco e nero ‘ordinato’ tra vie frequentate da ragazzi e le loro famiglie, voci e giochi, rumori e richiami verso figli per tornare a casa, la tavola pronta e nonni disposti a buone parole..
Siamo nel giorno 15 agosto 1969 in una Belfast aggrumata, viva nei volti e oscura negli episodi e negli avvenimenti che di lì a poco avverranno.
Pellicola che appare disunita o forse volutamente fatta di episodi familiari attaccati dove il pathos narrativo e/o il ricordo vivo sembra perdersi negli occhi del bambino e nei discorsi di ‘conquista’ della posizione a scuola per essere vicino alla ‘ragazzina’ dei sogni.
E il sogno idealizzato e i fatti di quei giorni appaiono troppo lontani e distanti dallo spettatore: l’uno certo ma non sinceramente coinvolgente e gli altri zoomati e ripresi in ‘tensione-gelata’ da sembrare non rappresentati e diretti da altre parti. Questo dualismo bambino sognante-scontri storici stagnano ognuno nel suo luogo ma non emergono fino in fondo.
Ecco che da dalla pellicola escono fuori, oltre ogni g(e)usto, le voci (narranti) dei nonni che raccontano alla fine se stessi: un’epoca che non si vede nella Belfast di Branagh. Quindi un senso di nostalgia narrativa e di traslazione di ripresa in storie che cerchiamo di percepire. Sono la voce e la musica di Van Morrison, con altri del periodo, a destare la maggiore attenzione e interesse a quello rappresentato.
‘A chi è rimasto, chi è partito, chi si è perso’.
Judy Dench (nonna): stravince di una spanna e ben oltre. Rende viva la scena, emoziona ogni suo gesto e il suo racconto è palpitante nei modi. Nel finale ‘si prende’ il film.
Ciaran Hinds (nonno): bravo e ironico con alle spalle la ‘nonna’ Judy.
Jude Hill (Buddy): giusta e corretta performance.
Regia di K. Branagh correttamente ‘distanziata’.
Voto: 6- (**½) -cinema bloccato-