America Latina: la recensione di loland10

“America Latina” (2021) è il terzo lungometraggio dei registi-sceneggiatori romani Damiano e Fabio D’Innocenzo.
Ecco, … ’dammi cento lire che in America voglio andar…’.
Al canto d’emigrazione popolare, il testo di una storia che si rinchiude in una villa (non per sbarcare il lunario) per vivere un incontro inaspettato e un’angoscia interiore. E’ l’inaspettato oltre ogni idea per una vita tranquilla di una famiglia normale senza strane idee in testa.
L’America diventa sinonimo di ‘paure e insicurezza’: il sogno avviene in quel di Latina. In modo anonimo e senza preavviso. Poche battute in una famiglia, tra una moglie e le figlie, Massimo vive agiatamente un silenzio mondo lontano da ogni pazza idea. Forse una birra con il suo amico Simone con libere parole e minime provocazioni. “Non sei stato mai a letto con….?” dice l’amico al padre di famiglia. “No” risponde in modo secco. Non ha mai voluto. Sta bene in casa con sua moglie Alessandra. Questa pace (esteriore) in una villa lontana dal clamore (quasi un luogo di ritrovo), viene di colpo minata e resa irreversibile da un incontro. Sotto la sua cantina scopre improvvisamente la ‘vita’ di una ragazza legata, imbavagliata e ferita nel volto. Tutto si rovescia. Silenzi e sconvolgimenti interiori. La vita diventa un incubo.
Il film si dipana tra assonanze (buio e acqua), inchieste (il bar e il suo amico), domande (su quello che potrebbe aver fatto), scorciatoie (aiuto e inseguimento) e dubbi (sulla famiglia). Tutto appare frastornato.
E il film proietta ‘pezzi’ e ‘attese’ uni con le altre. Un via vai senza un nesso logico (almeno così pare): quasi un ‘gioco’ di ‘studio’ del cinema. In ogni angolo, inquadratura, spazio e movimento minimo si ha la percezione di un effetto sincopato tra effetti visivi e dimensioni irreali. Ecco il ‘dietro’ la macchina da presa rende ‘piatto’ ogni discorso e ragionamento.
L’acqua della piscina, le scarpe bagnate, l’acqua della cantina, lo scorrere del fluido sul viso di Massimo appaiono un unicum senza spiegazioni o un indizio ‘per forza di cose’ senza aspettare delle vere e proprie risposte.

Tutto appare bloccato e inerme: un quadro che si riempie con voci e momenti.
Il fermo-immagine di Massimo dietro una finestra e la carrellata finale che scorre in avanti sul suo volto sfatto sono due modi di regia col polso sicuro. Certo molta maestria e saper fare ciò che si propone: le contrapposizioni sono lecite, su cosa rimane (del reale) e su quello che si deposita (oltre un sogno).
I personaggi dispari diventano un tutt’uno con la prova (maiuscola) di Elio Germano (Massimo, appunto): l’attore rende ogni vivamente credibile. Anche la sua testa rasata viene ‘esaltata’ nel movimento ripresa di nuca: è il suo corpo (in ogni gesto, sguardo e blocco) che trasuda ‘saliva’ narrativa e cinema per le ‘voglie’ registiche dei fratelli D’Innocenzo.
Un atto di prova (a soggetto) per un futuro film o meglio per un set da ‘ridisegnare’.
Le ‘culture’ cinema e la ‘fotografia’ del set rendono la pellicola diversa da ogni contesto e ‘simbolicamente’ attaccata a opere di cineasti del passato. I luoghi sono rarefatti, lontani, oscurati e soverchiati da volti e modi di comunicare. Il nulla si addentra come i colori che ammantano se stessi. Il rosso e il verde chiudono le immagini.
I volti delle donne sulle scale della cantina e gli sguardi delle stesse sopra un letto: ecco che Massimo vede e pensa di vedere. Forse i registi ci fanno pensare ad un ‘mondo’ parallelo rispetto al pensiero di un padre ‘traumatizzato’. E se un sogno impera in ogni suo apparire? La paura di conoscersi e la speranza vana che nulla sia reale.

Ecco il cinema dei fratelli romani è indizio, è struttura di linee, è diedro di piattezza, è silenzio di luoghi: è soprattutto inizio di qualcosa. Un cinema di prova(e), come di un microfono da far funzionare: lezioni viste e accenni alla compiacenza (di farlo). Studio e fase di studio.
Dai titoli iniziali (ripresa frenetica scorre in avanti mentre il cast arriva da sinistra) al carrello finale (leggero, dietro le sbarre): due movimenti asimmetrici e sincroni dentro ad un cervello sfatto.
Elio Germano (Massimo Sisti), come detto, s’impossessa del film e di ogni tic fisico e temporale. Grande prova non ci sono dubbi.
Da menzionare la partecipazione di Massimo Wertmuller: riesce a non farsi dimenticare minimamente.
Regia dei D’Innocenzo: sicura e virtuosa.
Voto: 7/10 (***½) -cinema sghembo-

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