In Alita – Angelo della Battaglia è impossibile non rintracciare la grande eredità di James Cameron, rimasto a bordo del progetto come produttore e sceneggiatore dopo aver accarezzato per tanto tempo l’idea di dirigerlo in prima persona. Il timone è passato infine a Robert Rodriguez, ma l’essenza di questa storia di fantascienza dai tratti cyberpunk e ambientata nel 26esimo secolo conferma la sensibilità dell’autore di Avatar, ossessionato dal confine labile e precario tra umano e artificiale.
La protagonista, interpretata da Rosa Salazar, è un cyborg che viene scoperto in un deposito di rottami dal dottor Daisuke Ido (Christoph Waltz). Non ha più ricordi del suo passato, ma intatta, in compenso, è la sua strabiliante abilità nelle arti marziali, che la rende una perfetta cacciatrice di taglie. Ha degli occhi giganteschi, incredibilmente espressivi, che tradiscono l’origine giapponese del fumetto da cui Alita è tratto (un manga creato da Yukio Kushiro nel 1990). Il film ne racconta l’apprendistato emotivo oltre che bellico, la scoperta dell’amore in un regno di detriti e di avanzi, di gare sportive potenzialmente mortali e liti cartoonesche tra sgherri da saloon.
La sensazione è quella di trovarsi dinanzi a un oggetto arrivato purtroppo fuori tempo massimo, tanto nella rappresentazione del futuro post-apocalittico in cui Alita si muove, piuttosto sorpassata dalla fantascienza che nel frattempo è stata prodotta in questi anni, quanto nel legame tra scienza e umanesimo, tra dato scientifico e creazione artigianale, con Waltz nei panni del Geppetto di turno. Tutti aspetti maneggiati in maniera piuttosto basica, con una sensibilità quasi sempre naïf.
In virtù di quest’elementarità diffusa, i margini per stupire non sono molti e anche l’uso del 3D, prerogativa sperimentale di Cameron col quale lo stesso Rodriguez si era cimentato nelle sue scorribande nel cinema per ragazzi (Missione 3D – Game Over, episodio della saga di Spy Kids del 2003), non offre spiragli di ricerca interessanti sul piano visivo. In attesa di vedere, naturalmente, quanto e come i sequel di Avatar affronteranno e porteranno avanti questa componente.
Tuttavia, nonostante l’anacronismo della confezione, è il più delle volte impossibile non empatizzare con l’emotività della protagonista, con i suoi amori dai contorni adolescenziali, con tante soluzioni grafiche che assecondano la sincerità indifesa di un personaggio femminile i cui occhi dicono sempre tutto, nella maniera più immediata e priva di filtri che si possa immaginare. Se il 3D non salta all’occhio, il lavoro di motion capture fatto sull’attrice di origini cubane che la interpreta, già vista in Divergent e Maze Runner, è davvero impressionante e prezioso, perfino un modello cui tendere in futuro.
Il film, proprio come Alita, paga il prezzo di agire e svilupparsi in un tempo che non è il suo: uno sfasamento non da poco. In entrambi i casi, tuttavia, si sopperisce a questa mancanza con tanto cuore, come se né il prodotto cinematografico né la sua eroina si rassegnassero ad agire da rottami arrugginiti e cercassero di nobilitarsi attraverso la via, nient’affatto agevole, della spudoratezza sentimentale. Alita – Angelo della battaglia vorrebbe essere prima di tutto un prodotto sci-fi dalle raffinate e performanti componenti tecnologiche, ma l’impressione è che, proprio come la sua protagonista, viva i momenti migliori nella carnalità del contatto umano. Davvero sopra la media, per tatto e verosimiglianza, rispetto a molte operazioni young adult che mirano allo stesso target, di pubblico e di racconto.
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