Ad Astra: la recensione di Jole de Castro

Un film difficile, senza ombra di dubbio. Difficile ed insolito. Occorre dimenticare le atmosfere di Gravity, le avventure nello spazio e tutto il resto. Qui siamo in viaggio, in bilico fra Malick e Kubrick (Odissea nello spazio), James Gray ci trascina nel suo mondo, un’esperienza quasi onirica ai confini della realtà. Tutto quanto è rarefatto, sospeso, il ritmo è rilassato, coinvolgente, come la voce fuori campo, i gesti quasi ipnotici e i primi piani serratissimi. Brad Pitt è il protagonista assoluto di questa pellicola lontana dal classico film di genere, che ci coinvolge a fondo senza mai riuscire però a conquistarci del tutto. E perché? viene da chiedersi. Brad è bravo, senza ombra di dubbio, l’espressione intensa, le emozioni trattenute ci sono tutte, anche se forse recitare per sottrazione non è proprio il suo forte. Avremmo visto meglio nella parte Casey Affleck, che avrebbe certamente donato qualche sfumatura in più a questo personaggio così complesso rispetto all’eroe di Troy e Vento di passioni. Ma tant’è, a Brad Pitt si perdona tutto e non possiamo fare a meno di guardarlo, concedergli il beneficio del dubbio, e non solo perchè è affascinante. Vogliamo vedere dove arriva e cosa ha dirci fino in fondo. In realtà, non molto. Nel senso che tutto è stato già detto all’inizio, sappiamo che il protagonista, Roy McBride, è un cosmonauta anaffettivo, che sta cercando il padre, partito per la spazio quando lui era ancora bambino, lasciandolo solo. Sappiamo che ha sofferto per questa perdita e che soffre ancora. La ricerca del padre è il leit motiv di tutto il film, ciò che lo spinge a intraprendere il viaggio, oltre al fatto di essere stato incaricato dal governo degli Stati Uniti, che lo ritiene il migliore sul campo. Aldilà delle sua apparente freddezza e imperturbabilità, scopriamo che Roy, come tutti noi, ha paura di quello che troverà, dei rischi che corre, di tutte le vicissitudini che il viaggio comporta (indimenticabile la sequenza del primate assassino che assale il suo collega). Scopriamo la sua voglia di evadere, di scappare dal mondo, l’impellente necessità di trovare un senso a tutto. Perchè lui siamo noi e lo spazio profondo, l’oscurità, non è altro che la vita, coi suoi eterni perchè. E’ piacevole seguirlo, a prescindere da quelllo che troverà alla fine, che sia il padre o qualunque altra cosa, ci lasciamo trasportare, galleggiare, scena dopo scena, senza nessuna fretta. Non c’è un arrivo, né un vero colpo di coda ma va bene così. Siamo ammaliati dalla fotografia, dal silenzio, dal fascino etereo di Ruth Negga, unica presenza femminile in un universo maschile ma oltre a questo c’è di più, una nota malinconica e vagamente sentimentale che sta dietro a ogni scena, che inquina ogni “valutazione psicologica”, come una sorta di sbavatura, qualcosa di atipico per un film di fantascienza. Allora, forse non è casuale la scelta di Brad Pitt, che trasuda umanità, fragilità, ad ogni singolo sguardo. Ma questo è un film diverso, si torna a ripetere, che esce fuori da qualsiasi schema e che forse, come un vino sofisticato, ha bisogno di tempo per essere apprezzato.

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